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Un Natale di Speranza

  Il Cappellano

Sono nella stanzetta che funge da sala per la catechesi. Intorno a me ci sono otto detenuti, ( più di otto non possono partecipare, anche se molti vorrebbero partecipare). Siamo a pochi giorni dalla celebrazione del Natale.

Come passerete il Santo Natale Fratelli?

Uno di loro risponde: “Il Santo Natale passerà come tutti gli altri giorni.”

Anzi – aggiunge un altro -  speriamo che passi presto.

Sono cappellano del Carcere di Poggioreale da circa due anni e da circa due anni faccio la catechesi al Padiglione Genova dove sono ospitati i cittadini detenuti sottoposti al regime speciale del 416bis.

  La legge

  La Costituzione nell’articolo 27 afferma : “… Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato…”

Per molto tempo questo importante principio è rimasto lettera morta. Solo nel 1975, con l’approvazione del nuovo ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n°354) e con le successive integrazioni, tra cui la più importante è la cosiddetta “legge Gozzini” (legge 10 ottobre 1986, n° 663), si è finalmente archiviato il vecchio regolamento del 1931 che focalizzava tutto sul comportamento del detenuto in carcere e si sono inserite delle novità sostanziali, tra cui: l’individualizzazione della pena, lo studio della personalità del condannato, il “trattamento” dello stesso, le misure alternative e si sono istituiti ruoli di operatori tecnici, quali gli assistenti sociali e gli educatori. Sono prescritti anche rapporti più frequenti con i familiari ed è prevista la “partecipazione della comunità esterna”. L’art. 17 così recita: “La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando e organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche o private all’azione rieducativi. Sono ammessi a frequentare gli istituti penitenziari con l’autorizzazione e secondo le direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore, tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra le comunità carcerarie e la società libera. Le persone indicate nel comma precedente operano sotto il controllo del direttore.”

Oltre a questa previsione di carattere generale, è aperto, per la prima volta, specificamente, l’accesso al volontariato: art. 78 (Assistenti volontari): “L’amministrazione penitenziaria può, su proposta del magistrato di sorveglianza, autorizzare persone idonee all’assistenza e all’educazione a frequentare gli istituti penitenziari allo scopo di partecipare all’opera rivolta al sostegno morale dei detenuti ed egli internati e al futuro reinserimento nella vita sociale.

Gli assistenti volontari possono cooperare nelle attività culturali e ricreative dell’istituto sotto la guida  del direttore, il quale ne coordina l’azione con quella di tutto il personale addetto al trattamento”

  22 ore al giorno

  Uno stato di detenzione che obbliga due a volte tre persone – a prescindere se siano colpevoli o meno – a stare chiusi in una cella di tre metri e 33 cm per 1, 90,  22 ore su 24 al giorno ( La norma europea dice che per ogni detenuto nelle carceri dell’Europa occidentale è previsto uno spazio di cinque metri quadrati),   è chiaramente una violazione dei diritti umani sanciti nello stessa Costituzione quando nell’articolo 27 afferma : “… Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato…”.  Da tener presente che negli altri padiglioni la media di persone rinchiusa è di 10 –12 persone in stanze di poco più grandi.

Quale rieducazione può mai avvenire quando una persona esce dalla cella solo per due ore d’aria…al giorno?

Per la persona la detenzione può diventare fonte di angoscia, depressione, disturbi della personalità…che non solo non giova alla rieducazione e al recupero del cittadino detenuto, me accresce l’aggressività del soggetto nei confronti della società che per prima non applica la giustizia.

  Il Direttore del Carcere

  La direzione dell’Istituto nella persona del suo direttore il dott. Salvatore Acerra – in un articolo uscito sulla rivista “Le Due Città” edita dal DAP -  riconosce la realtà di un sovraffollamento ( nell’Istituto potrebbero essere accolti 1100 ospiti mentre abitualmente ce ne sono il doppio) che rende praticamente quasi impossibile il trattamento, e punta coraggiosamente il dito sulla causa principale dell’alto tasso di criminalità e quindi di detenzione del territorio campano: La disoccupazione! : “Io credo che il problema di Poggioreale sia lo stesso della città di Napoli e dell’area napoletana: la carenza cronica di lavoro. Se noi vogliamo risolvere il problema del ritorno in Istituto dei detenuti una volta usciti, bisogna promuovere le attività lavorative e di formazione, che mettono il soggetto in condizione di trovare più facilmente un lavoro all’esterno. La maggior parte della popolazione carceraria è costituita, contrariamente a quanto comunemente si crede, da persone che hanno voglia di lavorare, di inserirsi nel mondo del lavoro. Ecco perché noi abbiamo bisogno che imprenditori e formatori professionali vengano qua e si rendano conto delle potenzialità dei soggetti che poi potranno chiamare a lavorare. Un filo diretto tra esterno e interno, tra le “due città” , con cui il detenuto, recuperato alla società, non trovi più motivo di tornare in carcere.” ( “Le Due Città” Giugno 2001).

  Il Ministro della Giustizia

  Il ministro della Giustizia, Roberto Castelli,  nel suo programma presentato alla Commissione Giustizia della Camera in data 24 luglio e alla Commissione Giustizia del Senato in data 26 luglio 2001 afferma:

“L’attuale situazione penitenziaria si può riassumere in queste cifre: i posti disponibili, secondo gli attuali standard, sono 45.000. Nella sua relazione programmatica, nel maggio 2000, il ministro Fassino dichiarava che la popolazione carceraria ammontava a 50.000 persone. Oggi il numero dei detenuti è di circa 57.000. La situazione dei penitenziari è variegata: a fronte di carceri di vecchia concezione e in condizioni al limite dell’accettabilità ci sono strutture di nuova costruzione e nuova concezione, predisposte anche a favorire l’attività di lavoro all’interno del penitenziario.

Ho verificato di persona la situazione in alcuni penitenziari dove la criticità è maggiore e devo dire che alcune situazioni sono al limite della sopportabilità…. Sono impegnato personalmente su questo tema e tre sono le strade che ho già individuato.

In primo luogo, è necessario ampliare la capacità ricettiva del sistema penitenziario, avviando a pieno regime fin da subito strutture come quelle di Bollate (Milano), valutando la possibilità di riaprire le strutture abbandonate e ristrutturando l’esistente.

In secondo luogo, si è deciso di studiare soluzioni differenti da quelle esistenti per quanto riguarda i tossicodipendenti, che, lo ricordo, rappresentano ben il 33% dell’intera popolazione carceraria. Ritengo sia possibile dare una risposta diversa dalla detenzione pura e semplice, raggiungendo il duplice scopo di alleggerire la pressione sui penitenziari e di dare una sia pur parziale soluzione alla piaga sociale rappresentata dalla droga.

In terzo luogo, si dovrà intervenire sull’altro grande fattore di affollamento dei penitenziari; la presenza di molti  extracomunitari, attualmente 17.000 individui…E’ mia personale convinzione che la permanenza in cella senza svolgere alcuna attività durante la giornata non giovi al detenuto. Occorre stabilire il principio che la pena vada scontata con l’obbligo al lavoro. In tale prospettiva, si dovranno compiere i passi necessari per la rimozione degli ostacoli che ancora si frappongono al concreto conseguimento di questo obiettivo. Inoltre, il lavoro deve rispondere il più possibile ad un’effettiva utilità sociale, tale da costituire un concreto “risarcimento” che il condannato deve corrispondere alla società…”  Lo stesso ministro Castelli constatando l’emergenza cui si trovano a dover gestire alcuni Istituti, tra cui la CC di Poggioreale, si domanda: “…come si sia potuto lasciare che la situazione degenerasse fino a questo punto…”

La nostra speranza è che l’attuale ministro della Giustizia Roberto Castelli davvero si impegni fino in fondo perché ci sia una svolta. E’ questo a cominciare dagli Istituti dove l’emergenza è più acuta.

  Il Carcere di Poggioreale

La Casa Circondariale di Poggioreale

Anno di costruzione 1908

Capienza detenuti 1100

Presenze effettive: 2361

Turni massacranti per gli agenti penitenziari dovuti al sovraffollamento e alla mancanza di organico circa 700 unità.

Coloro fra i detenuti che lavorano sono appena 350 la maggior parte extracomunitari.

  L’Alta Sorveglianza

Un discorso a parte deve essere dedicato ai reparti di alta sorveglianza ( Il Genova e il Livorno) dove sono reclusi cittadini presunti facenti parte di associazioni di stampo mafioso.

L’articolo che prevede lo stato speciale di coloro che sono accusati di questo reato è definito nell’articolo 416 bis del codice emanato in tutta fretta per dare una risposta all’omicidio del generale Della Chiesa.

  L’art. 416bis

L’articolo così recita: “Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da tre a sei anni. Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione (416) sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da quattro a nove anni.

L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per se o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.”

A Poggioreale questi detenuti due a volte tre per cella, non partecipano ad alcuna attività trattamentale salvo un incontro di catechesi settimanale di circa un’ora, ma non possono recarsi in chiesa per le funzioni religiose. Non sono ammessi a nessun lavoro per cui sono costretti a rimanere in cella per 22 ore al giorno su 24.

  L’Art. 41bis

  Il regime del 41 bis invece è ancora più restrittivo:

-         niente telefonate

-         acquisto generi alimentari da cuocere, divieto di usare fornelletti

-         corrispondenza e colloqui con altri detenuti

-         ora d’aria ridotta a due ore. Sempre da solo

-         ricevere pacchi (ne è concesso uno al mese, peso massimo cinque chili di biancheria)

-         organizzare attività culturali partecipare ad attività sindacali

-         inviare denaro all’esterno del carcere. (uniche eccezioni pagamento avvocato e multe)

-         ricevere somme di denaro dall’esterno

-         colloqui con i familiari (massimo uno al mese durata un’ora, attraverso vetro divisorio)

-         nessun contatto fra detenuto e visitatori

E’ difficilissimo per lo stesso cappellano poterli visitare anche quando questi lo richiedano.

  Il Dottor Giancarlo Caselli

Il dottor Giancarlo Caselli nel libro-intervista scritto insieme con il Dottor Antonio Ingroia…..: “L’eredita scomoda” a cura di Maurizio De luca e edita  da Feltrinelli 2001 a pag. 166 e seguenti parla del problema del regime carcerario speciale dei detenuti accusati di associazione e ne giustifica l’esistenza affermando che questo regime speciale è l’unico modo per spezzare il vincolo mafioso e ristabilire l’equità della pena che, prima dell’approvazione dell’articolo 416 bis e dell’articolo 41 bis, era pregiudicata dal regime di privilegio di cui, di fatto, usufruivano coloro che facevano parte di associazioni.

  Incongruenza

La domanda che io come cappellano mi faccio però è questa: “Anche ammesso che il regime speciale regolamentato dagli articoli in questione fossero l’unico modo per spezzare il vincolo mafioso, questo dovrebbe sempre, per il dettato della costituzione, servire alla rieducazione e al recupero del detenuto. Allo stato attuale della detenzione nel carcere di Poggioreale non si vede come questo regime possa servire alla rieducazione visto la totale assenza di qualsiasi attività trattamentale!

Questo modo di agire suppone una sfiducia totale nella rieducazione e nel recupero che ci riporta indietro di millenni!”

  Un Natale di speranza

  Vorrei concludere citando un passaggio del Cardinale Carlo Maria Martini Arcivescovo di Milano che in un articolo intitolato “Etica e punizione” nella  rivista “ Le Due Città” del mese di aprile 2001, a cura del DAP a riguardo del senso della punizione augurandomi che coloro che hanno la responsabilità della conduzione degli Istituti penitenziari possano intervenire al più presto possibile per sanare queste situazioni di ingiustizie.

Cosi il card. Martini : “…Come già accennato, però, ciò a cui la stessa punizione carceraria deve mirare è il recupero della ragione e di un modo corretto di vita da parte di chi si è macchiato di crimini. Ciò che rende etica una punizione è, in questo senso, la sua funzione pedagogico-medicinale. La punizione, cioè, deve puntare a favorire nel colpevole quell’umiltà e quell’autocritica che possono portare a cambiare la vita. Chi è vittima del proprio delitto deve poter compiere un’autocritica e va perciò aiutato a rientrare in se stesso, a scendere nel profondo del proprio spirito, ad andare oltre una conoscenza superficiale di sé. Bisogna aiutarlo anche a rinunciare ai falsi meccanismi di difesa che lo inducono a fuggire da sé, a giustificarsi e ad autoassolversi. La punizione, come intervento pedagogico e mai come vendetta, aiuta o dovrebbe aiutare il colpevole a capire il bene come il male. In questa linea, dovrebbe far crescere un atteggiamento di umiltà, che è coscienza dei propri limiti ed errori e che conduce necessariamente all’autopunizione, ad accettare dolore e sofferenza per un giusto amore di sé e del prossimo offeso. Con la punizione, non si tratta di portare all’umiliazione del colpevole, ma di far crescere la sua umiltà. Una applicazione morale della pena, quindi, non impone la tortura – né fisica né psicologica – del delinquente, ma promuove l’ascesi personale, faticosa e continua; non ordina di soffocare il reo nell’odio e nell’angoscia, ma vuole che in lui rinasca l’amore per la vita e la speranza di una nuova dignità e riabilitazione responsabile. Tutto ciò, però, - non è inutile ricordarlo! – non avviene in forza della sola valenza deterrente della pena, che pure non va totalmente misconosciuta, ma esige un’opera educativa della coscienza individuale e sociale, incominciando dall’infanzia sino alla maturità della persona: senza un serio e capillare impegno educativo la deterrenza della pena resta un’ideologia pericolosa e deresponsabilizzante.”

 

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Don Bruno Oliviero