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 Quale sicurezza ci rende sicuri?

XXVII Seminario di Studi organizzato dal SEAC a Belluno dal 23 al 25 Giugno

 

Nella stupenda cornice delle Dolomiti, si è tenuto il XXVII seminario di studi organizzato dal SEAC sul tema “Quale sicurezza ci rende sicuri”. Un tema di grandissima attualità, dato il grande grado d’insicurezza percepito dalla società civile. I Mass Media testimoniano tutti i giorni il moltiplicarsi dei crimini che, sempre più spesso, vedono come protagonisti cittadini inermi. La reazione sdegnata della cittadinanza, si fa sentire con una richiesta allo Stato d’essere più presente in modo da garantire la sicurezza dei cittadini.

 

La prospettiva

Il prof. Massimo Pavarini, docente all’università di Bologna, ha delineato la “prospettiva” in cui inquadrare il tema della sicurezza. Giocando sull’assioma: “Sicurezza dei diritti e non il diritto alla sicurezza”, ha affermato che dagli anni ‘70 in poi, le società occidentali sono passate da un modello di “inclusione sociale” ad uno di “esclusione sociale”.

In un modello di inclusione sociale il benessere tende a diffondersi in tutti gli strati della società.

Il buon governo che assume il modello dell’inclusione sociale cerca di assicurare i diritti a tutti i cittadini: il diritto al lavoro, il diritto alla casa, ecc. quando i diritti sono assicurati, la “sicurezza” ne viene come una diretta conseguenza.  Quando viceversa si assume il modello dell’esclusione sociale, non si persegue più la sicurezza dei diritti per tutti e allora il numero degli esclusi aumenta sempre di più portando, come conseguenza, sempre più “insicurezza” nella società. In questo contesto, la “sicurezza” diventa qualcosa di “privato”. Il diritto alla sicurezza diventa una risorsa che si vende nel mercato. Chi possiede più ricchezza può assicurarsi più sicurezza!

 

La sicurezza: un bene privato!

Nel 1994 ero in missione nell’arcipelago delle Filippine. Visitando Manila rimasi colpito dal vedere interi quartieri, all’interno della città, “recintati” con dei veri e propri posti di blocco con tanto di guardie armate che controllavano i documenti di coloro che entravano. Gli abitanti di quei quartieri erano ricchi e potevano permettersi di avere il loro quartiere recintato con delle guardie che erano addette alla loro “sicurezza”. Quando mi recai come missionario in Colombia, nell’America latina, mi sorpresi invece nel notare la presenza di vigilantes armati per ogni negozio. La conclusione è che in un modello di esclusione sociale coloro che non possono “pagare” il bene della sicurezza sono costretti a vivere nella più grande insicurezza.

 

Lo "smaltimento" dell'eccedente umano

E’ In questo contesto che il prof. Salvatore Palidda, docente di sociologia all’università di Genova, ha parlato della necessità, che la società post-moderna ha, di “smaltire” l’eccedente umano. La post-modernità ha decretato la fine della società del walfare. Gli Stati, nel mondo globalizzato, se vogliono essere competitivi nel campo economico, devono facilitare scelte neoliberiste nello sforzo di ridurre sempre più i costi, inoltre è necessario essere primi nell’innovazione e nella qualità, pena la perdita dei mercati a vantaggio di paesi più determinati e più efficienti. La frase che spesso si sente è: non ci sono risorse per le spese sociali. Se il profitto e la competitività diventano l’obiettivo da raggiungere, la “persona umana” può allora diventare “qualcosa” di cui non c’è bisogno, qualcosa da… “smaltire”.

 

Il lato oscuro della globalizzazione

Jeremy Rifkin, autore del libro “L’era dell’accesso” Mondadori 2000 e presidente della “Foundation on Economic Trends” con sede a Washinton D. C., in un articolo pubblicato sul settimanale “Panorama” del 27 settembre 2001 così descrive il “lato oscuro” della globalizzazione: “Basti pensare al fatto che oggi il patrimonio totale dei 356 individui più ricchi del mondo supera il reddito annuo complessivo del 40% dell’umanità. Mentre parliamo in toni entusiastici di globalizzazione, e-commerce e rivoluzione delle telecomunicazione, ben il 60% della popolazione mondiale non ha mai fatto neppure una telefonata e un terzo non ha l’elettricità. Nell’era dell’economia sempre più globale, quasi 1 miliardo di persone sono disoccupate o sottoccupate, 850 milioni malnutrite e centinaia di milioni non hanno sufficiente acqua potabile o abbastanza carburante da riscaldare le proprie case. Metà della popolazione mondiale è irrimediabilmente esclusa dall’economia ufficiale, obbligata a lavorare sul mercato nero o per la criminalità organizzata. Per non parlare dell’attacco spietato della globalizzazione alla diversità e identità culturale.”

 

Il business penitenziario

In un contesto di esclusione sociale, che funzione viene riservata all’Istituzione “Carcere”? Il sociologo Nils Christie nel suo libro: Il Business penitenziario, Ed. A coop. sezione Eleuthera, 1996, pag. 9, così si esprime: “ Le società di tipo occidentale si trovano a dover affrontare due problemi principali: la ricchezza è distribuita ovunque inegualmente; così pure l’accesso al lavoro retribuito. Entrambi i problemi sono in potenza fonte di conflitti. L’industria del controllo del crimine è adatta ad affrontarli entrambi. Questa industria da una parte fornisce profitto e lavoro e dall’altra produce il controllo di coloro che altrimenti potrebbero disturbare il processo sociale. Confrontata alla gran parte degli altri comparti economici, l’industria del controllo del crimine si trova in una delle posizioni più privilegiate. Non manca mai la materia prima: sembra che esista un rifornimento continuo di crimine. Infinite sembrano essere anche le richieste del servizio, come pure la volontà di pagare per quella che viene considerata sicurezza. E i consueti problemi di inquinamento, propri dell’industria, qui non compaiono. Al contrario, questa è un’industria che viene vista come un’opera di pulizia, di rimozione degli elementi indesiderati da sistema sociale.”

 

I dati riguardanti l'Italia

E’ di qualche giorno fa l’allarme lanciato dal Ministro Castelli sul sovraffollamento nelle carceri Italiane. Gli istituti di pena in Italia potrebbero contenere 42.000 detenuti, attualmente siamo arrivati a una presenza di circa 60.000 detenuti.  Cosa succederà nel prossimo futuro?

Cosa sono i detenuti: un “eccedente umano” da smaltire e/o una sorta di “materia prima” su cui “investire” per guadagnare nel business penitenziario, oppure sono persone umane da reintegrare nella società, persone umane dotate di una dignità inalienabile?  Dalle risposte che la Società Italiana darà a queste domande dipenderà il futuro della Giustizia in Italia. Il mondo del Volontariato, hanno detto i vari rappresentati, sarà sempre presente per vigilare!

Don Bruno Oliviero

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