Riforma del Sistema Penale
Riteniamo opportuno riportare in questa sezione degli interventi che ci sembrano importantissimi ai fini di una riforma del Sistema Penale da tanti auspicata e di così difficile realizzazione.
Il primo intervento che proponiamo è del Prof. Luciano Eusebi, docente di Diritto Penale all'università cattolica di Milano - sede di Piacenza. Questo contributo è uscito su un libro pubblicato dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia sulla realtà della Mediazione Penale da cui il titolo del suddetto intervento: Riforma del Sistema Penale e Mediazione.
Il secondo Intervento del Card. Carlo Maria Martini Arcivescovo di Milano dal titolo: Etica e punizione, dal significativo sottotitolo: Il desiderio di giustizia non deve trasformarsi in vendetta.
Riforma del Sistema Penale e mediazione
Dobbiamo domandarci che cosa può fare il diritto penale, qual è il compito della comunità dopo la frattura rappresentata da un reato; e allora dobbiamo chiederci che cosa vuol dire fare razionalmente prevenzione, quali sono le esigenze dell’ordinamento giuridico e della vittima rispetto alla commissione di un reato perché vorrei parlare non tanto e non solo di mediazione tra la vittima e l’agente di reato, ma tra l’ordinamento giuridico, tra la comunità civile nel suo complesso e l’agente di reato. Se la risposta è sempre e soltanto quella legata alla proposizione della sofferenza della pena in quanto tale, in quanto cioè sofferenza, diventa pressoché inevitabile un meccanismo perverso: più alta è la risposta in termini di sofferenza fine a se stessa più forte è la sottolineatura della gravità di quello che è successo. Per segnalare che quello che è successo era molto grave chiedo il massimo della pena. Poi magari dico anche “guardate che quel massimo, quei 27 anni, quell’ergastolo in fondo non sposta una virgola” perché chi ci è stato tolto ovviamente non torna in vita. E allora dobbiamo chiederci rispetto alla frattura che senza dubbio è costituita dal reato che cosa deve intervenire nel rapporto con la società civile nel suo complesso.
Rispetto a questo vorrei allora muovere da una riflessione che credo essenziale: “ Che cosa vuol dire fare prevenzione? “. Do per scontato che, rispetto alla commissione dei reati, il fine che la comunità civile deve realizzare è quello della prevenzione. Del resto se noi andiamo a chiedere anche alla vittima, ai familiari della vittima che cosa si attendono, credo di poter constatare che la risposta più vera sia l’attendersi di poter dire con forza che quello che è accaduto, che storicamente è una realtà accaduta, non doveva accadere; quello che è accaduto non dovrà più accadere. L’esigenza fondamentale delle vittime e dei loro familiari e dunque connessa a una chiarificazione delle responsabilità: Che cosa storicamente è accaduto, perché è accaduto, che cosa ci sta dietro. Penso non solo ai fatti che poi traggono l’interesse dell’opinione pubblica, ai fatti connessi a manifestazioni della patologia momentanea dell’essere umano, ma anche alle grandi stragi. Io vengo da Brescia dove ancora si va riflettendo su che cosa c’è stato dietro la strage di Piazza della Loggia. Queste sono esigenze che vengono molto prima di un’istanza di ritorsione o di vendetta. Non doveva accadere, non dovrà più accadere. “ Quale è stato il quadro presente dietro a queste situazioni?”. Su questa base chiediamoci che cosa voglia dire fare prevenzione.
La teoria tradizionale del punire ci ha parlato di prevenzione generale e di prevenzione speciale, la prima intesa a distogliere la generalità dei cittadini dal commettere reati, la seconda intenta a fare in modo che chi ha già commesso un reato non ne commetta altri. La teoria tradizionale del punire ha inteso queste due modalità in quanto legate a dimensioni di intimidazione o di incapacitazione dell’agente di reato. Il ruolo del diritto penale sarebbe quello di creare timore della pena che farebbe sì che i reati non vengano commessi. E’ il meccanismo della contro spinta psicologica: tu hai impulsi determinati il più delle volte da fattori egoistico-economici a delinquere e il timore della pena dovrebbe distoglierti da questo. Quando un reato è già stato commesso tu hai delinquito. Ebbene la pena e il diritto penale servono a metterti in condizione di incapacitazione così non commetterai altri reati.
Queste sono le due modalità più tradizionali dell’intendere il punire. Se voi andate dall’uomo della strada vi dirà che il compito del diritto penale alla fine è questo. Anche nella disquisizione teorica queste modalità sono rimaste ampiamente indiscusse. In realtà, a mio avviso, il dibattito sulla teoria della pena ha scontato il fatto di non avere messo in discussione il significato della pena. In sostanza è stato detto che la pena è l’inflizione di una sofferenza fine a se stessa, in qualche modo corrispondente analogicamente al reato e poi, a tavolino, discutiamo se questa sofferenza in qualche modo analoga al reato, di segno uguale e contrario, debba essere giustificata come retribuzione - sarebbe giusto riparare il male con il male – o debba essere giustificata come prevenzione generale – il timore della condanna fa si che i reati non si commettano – o debba esser giustificata come prevenzione speciale – l’inflizione della pena fa sì che tu non commetta i reati. Questa situazione oggi deve essere messa in discussione. Finalmente dobbiamo interrogarci su quale è un modo razionale di fare prevenzione, su quale è un mod razionale di rispondere al reato. Per aiutarci a questo è utile constatare perché queste due modalità di prevenzione così chiaramente percepite dall’uomo della strada non funzionano.
Sono due modalità di prevenzione fondate sul fattore forza: io faccio prevenzione perché sono forte e minaccio una pena grave, una sofferenza grave. Se tu commetti un reato corri il rischio di rovinare la tua vita. Oppure, fattore forza, io ti prendo e “ti metto sotto chiave”, ti deporto nelle colonie, come facevano la Francia e L’Inghilterra fino agli anni ’20 di questo secolo, così tu non sei in condizione di nuocere.
Scopriamo sempre di più che una prevenzione basata sul fattore forza non funziona adeguatamente. Sul piano della prevenzione generale già Beccarla ci insegnava che dietro alla pena severa fine a se stessa ci sta la dichiarazione di impotenza dello Stato. La cifra oscura è elevatissima. Il numero dei reati che non vengono scoperti nei suoi responsabili è grande. Se fossimo in grado di intercettare un numero elevato di reati non ci sarebbe bisogno di pene elevate perché già il fatto di intercettare un numero elevato di reati creerebbe una situazione che renderebbe illogico, almeno in molti casi, delinquere. Se tu avessi una probabilità molto elevata che la tua responsabilità venga portata alla luce del sole probabilmente non delinqueresti. Del resto è abbastanza ingenuo immaginare che basti fare leva su un solo elemento – il timore della pena – rispetto a una realtà così complessa sul piano umano come quella del reato. Dunque constatiamo che l’aumentare l’entità della pena fine a se stessa non ha mai portato a una diminuzione dei tassi di criminalità. La logica per cui “so che 99 volte su 100 la fai franca, ma se in quel 1 caso su 100 ti prendo, ti rovino” non fa prevenzione.
Constatare questo ci aiuta a capire come c’è un’altra dimensione della prevenzione generale sulla quale dobbiamo porre attenzione. Pensiamo, ad esempio, al top dell’intimidazione: la pena di morte. Secondo la mentalità classica essa dovrebbe sortire una diminuzione della criminalità legata all’incutere il massimo dello spavento. Eppure nessuna ricerca criminologia conferma questo. E’ vero, come ci insegna Norberto Bobbio, che non dobbiamo prendere posizione contro la pena di morte solo perché non funziona, m per ragioni etiche, morali in sé. Ma non è fuori luogo, riflettere razionalmente sul perché non funziona, sul perché, dove è adottata la pena di morte, ordinariamente abbiamo tassi di violenza molto elevati, sul perché abbiamo senz’altro una situazione di violenza più pronunciata a livello sociale negli Stati Uniti che nel nostro Paese.
La pena di morte contraddice il messaggio che l’ordinamento giuridico porta in sé. L’ordinamento giuridico, come tutti gli ordinamenti moderni nel mondo occidentale, afferma che la vita è un bene intangibile. Non c’è alcuna ragione per cui, al di fuori di casi di legittima difesa, l’ordinamento giuridico può consentire di negare la vita umana. L’ordinamento giuridico lancia un messaggio: la vita umana è un bene fondamentale. Nel momento in cui l’ordinamento giuridico stesso applica la pena di morte, smentisce questo messaggio, fa decadere nella psicologia sociale il rango del bene-vita. Questo ci fa scoprire come l’ordinamento giuridico faccia prevenzione cercando non tanto e non solo il fattore forza, ma soprattutto il fattore consenso (questo lo constatiamo nella prevenzione generale), la sua capacità di aggregare consenso intorno ad alcune indicazioni comportamentali fondamentali. Pensate all’importanza di questo ruolo del diritto nella società pluralista dove, cioè, non esistono istanze autorevoli valide per tutti a priori e dove il diritto, in quel contesto di democrazia che va ogni giorno riconquistato, cerca di stabilire una serie di proposizioni accoglibili e accolte tendenzialmente dall’intera popolazione. Il diritto penale dovrebbe del resto occuparsi della tutela di quei beni fondamentali che attengono alle condizioni strutturali, costituzionali della vita civile. Allora, già sul piano della prevenzione generale, il diritto fa prevenzione nella misura in cui riesce a tenere elevato il livello di autorevolezza del suo messaggio e, dunque, del consenso che riesce ad aggregare intorno alle sue proposizioni. Non è tanto un fattore di forza contro forza. Se, infatti, la forza del diritto nei confronti della mafia fosse solo legata a una maggiore capacità militare, poliziesca, repressiva, allora si tratterebbe di una partita che si gioca sulla sfera del contingente. Oggi può anche darsi che la polizia sia più efficiente della mafia, ma la maggior forza del diritto rispetto alla mafia sta nelll’ambizione che ha il diritto di poter avere la libera adesione dei cittadini alle sue proposizioni. Quella stessa ambizione che la mafia non possiede e che deve cercare sul piano dell’omertà, della forza, del controllo dei rapporti economico-politici. Allora l’ordinamento giuridico non fa prevenzione solo con l’utilizzo del fattore forza. Lo fa tenendo alto il livello di consenso intorno al rispetto di certi beni fondamentali.
Guardiamo alcune nostre periferie. Se abbiamo dei ragazzini che sono disposti a fare i killer per 500.000 lire e quindi a rischiare la loro stessa vita nel momento in cui mettono a repentaglio quella degli altri, immaginate se un diritto che giochi le sue carte solo su un piano di pena di morte e dell’intimidazione della forza riesca ad essere vincente. Del resto questo vale anche sul piano della prevenzione speciale. Si potrebbe dire: “Tu racconti, tu predichi bene, ma è fuori dubbio che se io acciuffo l’agente di reato lo metto in condizione di non nuocere (lo uccido – pena di morte – lo deporto, lo metto all’ergastolo o comunque gli infliggo una pena molta lunga)”. In questo caso avrò indubbiamente un ritorno in termini di prevenzione perché, fino a quando l’agente di reato è “sotto chiave”, non delinque. Eppure anche questa soluzione che sembrerebbe così semplice, così banale non funziona perché se, ad esempio, a Brescia o a Verona abbiamo la presenza di 100 rapinatori e con una retata se ne mettono in carcere 30, l’uomo della strada si aspetta che le rapine diminuiscono del 30%. In verità, di lì a poche settimane, si constaterà che il livello delle rapine rimane quello di prima. Se ci si limita, cioè, a fare una politica di neutralizzazione, i posti di lavoro che sono stati liberati verranno immediatamente occupati da altre persone perché la domanda di criminalità è maggiore del numero di coloro che riescono ad attuare un agire criminale.
Questo ci fa capire che se a Brescia o a Verona ci sono condizioni strutturali, cioè condizioni economiche, sociali ecc. che danno spazio a 100 posti di rapinatore e si fa una politica criminale che incida su tali precondizioni, risulta, non dico inutile, ma ampiamente limitato il fatto di avere catturato una serie di rapinatori se non si è inciso su quegli elementi che hanno dato spazio a quell’attività criminale. Ecco perché finalmente la criminalità deve essere riguardata anche con strumenti di analisi economica. La criminalità ha delle basi perché si creino dei presupposti, perché qualcuno poi scelga di essere criminale. Siamo lontani un secolo dalle polemiche sul positivismo, sul libero arbitrio; nessuno mette in discussione che ci sia la libertà dell’essere umano, se non altro perché, nel momento in cui discutiamo la capacità di libertà dell’individuo umano subordiniamo l’individuo all’entità pubblica, mentre l’individuo deve rimanere ovviamente il punto di riferimento di qualsiasi ordinamento giuridico. Ma impregiudicata la dimensione della libertà umana è fuori dubbio che esistono delle precondizioni strutturali di qualsiasi esercizio della libertà umana. Inoltre la libertà umana non è mai soppesabile se non proprio nelle condizioni che l’hanno limitata. Se, allora, paradossalmente, io riuscissi a recuperare una libera adesione da parte dell’agente di reato al sistema di regole, se vogliamo perfino di valori, che egli ha precedentemente violato, farei più prevenzione della semplice neutralizzazione. Questo perché, nel concreto, nulla consolida di più l’autorevolezza dell’ordinamento giuridico che una libera scelta compiuta perfino da colui che precedentemente ha violato le regole dell’ordinamento giuridico che torna ad asserire la validità di quelle regole e a viverle, a metterle in pratica.
Qualche volta mi è capitato, nei convegni di aggiornamento fatti dal CSM, di dire ai Magistrati di Sorveglianza di porre attenzione al fatto che, con tutti i limiti che ci sono, basta immaginare che la prevenzione sarebbe applicare 50 di pena. Poi, siccome siamo buonisti e umanitarismi, voi Magistrati di Sorveglianza siete quelli che vanno contro la prevenzione perché voi fate gli sconti di pena, date la semilibertà… Voi fate prevenzione perché nella misura in cui dovesse realizzarsi un rientro nell’ambito della legalità di colui che precedentemente ha commesso un reato, questo è un fattore di fortissima stabilizzazione dell’ordinamento giuridico. Non a caso qui non parliamo dei pentiti…non a caso la mafia non ha mai temuto un ergastolo all’Ucciardone e si è sempre preoccupata di pagare la pensione ai familiari di coloro che sono detenuti. Quando vanno a chiedere il pizzo ti chiedono se vuoi contribuire al sostegno delle famiglie di coloro che sono in carcere. Ma la mafia ha sempre temuto il soggetto che ritorna sul territorio dicendo che la mafia rappresenta una modalità esistenziale sbagliata e che mette in discussione i legami di omertà, economici…anche da questo punto di vista la prevenzione si gioca forse più intorno a fattori di consenso che intorno a fattori di forza. Allora fare prevenzione non è riproporre quello schema, magari giustificato in senso general preventivo o special preventivo, legato a un’idea di retribuzione.
Lo schema che Hegel ci ha proposto in maniera icastica più espressiva coincide con lo schema del diritto penale di sempre. C’è stata una frattura: il reato. Rispetto a questa frattura, non si può rimanere inerti, e il passaggio appare inevitabilmente quello di riproporre una frattura di segno uguale e opposto, una frattura analogica. Ma Hegel, ci dice anche che non si può prevedere se poi, rispetto al furto di una rapa, sarà comminata una pena di pochi soldi o la pena di morte. La scelta dipende dall’opinione pubblica, dalla situazione storico-culturale, dal bisogno di vendetta, dal bisogno di pena. La realtà è che c’è una frattura, la risposta al reato passa attraverso un’altra frattura. L’equilibrio si genera attraverso la ritorsione del male. Io credo che questo meccanismo sia radicalmente da superare perché immorale e non in grado di fare prevenzione. Immorale perché non si vede proprio quale sia la ragione razionale per cui si debba ritenere che il male possa produrre il bene. Esiste una raccolta di scritti in memoria di Hegel che parla di questa illusione che dal male possa derivare il bene. Tale idea ha preteso di avere fondamenti religiosi, radici bibliche, quando, in verità, nelle sacre scritture il concetto di giustizia è radicalmente diverso, certamente non legato alla ritorsione del male. Questa idea ha cercato di trarre giustificazione dal modello della giustizia finale o che addirittura ha inquinato il modo di intendere il cardine della fede cristiana, cioè addirittura il problema soteriologico, la salvezza del Cristo morto e risorto. Quasi che dietro a questo meccanismo di compensazione retributiva: un’idea blasfema che, dato il male, il bene si ristabilisce passando per il male.
Questa idea non riguarda solo l’ambiente giuridico, ma anche il fatto che una volta individuato e proposto all’opinione pubblica un alibi, c’è un dittatore o comunque un capo che effettivamente si è reso colpevole di gravissime responsabilità. Puoi bombardare gli ospedali, le centrali elettriche; puoi provocare la morte di bambini perché c’è stato u male e ristabilisci il bene passando per un’altra frattura. Questa è giustificata perché la esige la giustizia. Questi sono meccanismi che non operano solo nel diritto, ma ben più in là.
Rispetto a questo meccanismo vorrei allora proporre un’altra modalità, quella della mediazione.
Premetto che, per parlare seriamente di mediazione, dobbiamo iniziare a dire che per fare una buona prevenzione abbiamo bisogno di una società che prenda sul serio il tema della corresponsabilità alla genesi del fenomeno criminale. La società dei giusti sarà allora quella che, non disimpegnandosi rispetto al fenomeno criminale, avverte che, se la mafia prolifera esistono delle condizioni economiche-politiche su cui bisogno agire. Una società che si sente corresponsabile potrà essere una società che accetta i conti di una prevenzione fittizia. Se voglio che non ci sia il riciclaggio di soldi sporchi, se voglio che non ci sia la mafia, non posso tollerare aree di calcolata evasione e non trasparenza fiscale. So bene che non posso metter in conto l’esistenza di paradisi fiscali più o meno lontani dai nostri confini. Per tagliare l’erba sotto gli zoccoli del cavallo di Attila dobbiamo pagare dei conti perché incidere su questi fattori che fanno da presupposto alle attività criminose implica per ciascuno di noi dei costi. Su questo punto il diritto penale è sideralmente arretrato.
C’è
qualche riferimento nella legislazione degli ultimi anni proprio sulla mafia,
sul riciclaggio, sull’usura, qualche timido accenno ai fondi di garanzia
dell’accesso al credito per sbarrare la strada alle attività criminose. Tutti
aspetti molto costosi per la società. Da questo punto di vista risulta più
vantaggioso all’uomo della strada fare riferimento al diritto penale
tradizionale perché disimpegna: “ …non è affar mio, che se ne occupi la
polizia, li prendano e poi li stanghino…” Fare prevenzione implica un costo.
In un periodo di deregulation è difficile dire che certi standard di
prevenzione richiedono un po’ dei lacci in nome della solidarietà sociale, ma
non stiamo teorizzando l’economia pianificata. Il grosso della prevenzione
si gioca sulle forme di tutela anticipata sulle quali noi siamo ancora
estremamente arretrati. Non nel momento in cui un bene giuridico è stato
leso, in cui cioè il danno è stato pienamente compiuto – lì forse ci sarà
soltanto da ricucire qualcosa in termini di mediazione – ma il grosso della
prevenzione si fa non con il diritto penale, ma con gli altri strumenti del
diritto, con gli strumenti della politica sociale, con una buona legislazione
amministrativa, con un a buona legislazione civile, tributaria.
Mi piacerebbe fare un convegno sulla prevenzione criminale esterna al diritto penale, quella che non si fa con gli strumenti del diritto penale, recuperando anche una certa continuità tra l’apparato sanzionatorio penale e gli altri sistemi, tenendo presente che nel momento in cui noi abbiamo il coraggio di non usare in questi ambiti di tutela anticipata lo strumento della pena detentiva, potremo recuperare qualcosa sul piano delle procedure di intervento giuridico. Finché c’è la pena detentiva guai, e tentazioni ce ne sono fin troppe, a fare cadere garanzie che sono state costruite negli ultimi due secoli a tutela del cittadino rispetto alla possibile privazione della libertà personale. Quando, però, un bene giuridico è stato effettivamente leso, quando un fatto traumatico è avvenuto, cosa può fare l’ordinamento giuridico? Che cosa vuol dire mediazione?
Al di là degli spazi coltivati oggi presso i tribunali dei minori e in altri Paesi, ad esempio in Francia, ove c’è la ricerca di un recupero del dialogo tra vittima e agente di reato, vorrei che la mediazione fosse percepita come un modo nuovo di intendere la reazione complessiva dell’ordinamento giuridico a un atto un antigiuridico. Se c’è stata una frattura dobbiamo pensare non allo schema hegeliano di un’altra frattura di segno uguale e opposto che, chissà poi perché, dovrebbe riequilibrare le cose, non riequilibrando nulla ma dobbiamo pensare a gettare un ponte sulla frattura stessa. Non c’è nessuna pena che può da sola cancellare quella frattura. Sulla frattura possiamo, però gettare un ponte che consenta di dare risposta a quelle due istanze di cui parlavamo.
Deve essere detto con forza che quello che è accaduto non doveva accadere, che quello che è accaduto non dovrà più accadere. E’ significativo che, nel momento in cui ci siano spazi perché la vittima dica questo nel rapporto con l’agente del reato, l’agente del reato stesso non chiede più al giudice l’enfatizzazione simbolica dell’entità della pena. E’, altresì, significativo il fatto che spesso i nostri condannati ci dicano: “ quello che mi pesa di più è l’assenza di significato della pena che mi viene imposta”. Quell’assenza di significato che, secondo quel meccanismo che già aveva sottolineato Dostoevskij, finisce per fare cadere addirittura la stessa consapevolezza del male che si è fatto perché la reazione è così insensata che fa persino venir meno la consapevolezza di avere effettivamente arrecato un danno.
Allora il ripensare la pena come modalità che stabilisce un rapporto con la vittima, che può dare luogo a una assunzione di oneri anche notevoli, ma significativi. Oneri che non rappresentino la negazione della dignità di chi subisce la pena, ma che rappresentino una tangibile riassunzione di un atteggiamento responsabile nei confronti della società. Dalla mediazione spesso nasce un progetto che può essere anche molto impegnativo.
Anche al di fuori dei casi in cui la mediazione come atto tecnico, cioè come tavolo di mediazione a processo penale sospeso, non sia praticabile, ritengo che l’idea di mediazione debba avere una fecondità nella riforma del sistema penale che, prima o poi, dovrà avvenire.
La
pena deve essere intesa secondo la caratteristica di un percorso che rappresenti
una riassunzione di responsabilità, la riscrittura di un patto tra la società
e colui che ha trasgredito ad alcune regole. Che parlare di questo non sia
impossibile lo constatiamo alla luce delle secche preventive a cui porta il
sistema attuale. Un sistema che spasmodicamente, nonostante tutte le
alternative, le pene sostitutive, resta ancorato alla modalità della pena
detentiva come criterio di ritorsione penale, non riesce a fare una buona
prevenzione.
Un sistema tutto centrato sulla detenzione e sulla pena intesa come sofferenza della persona fisica non ha mai guardato ai profitti, alla necessità cioè di intervenire sui profitti che sono il volano delle attività della criminalità organizzata, non è mai intervenuto sulle responsabilità delle persone giuridiche. Esce addirittura dall’ottica del diritto penale la responsabilità delle persone giuridiche. Questo comporta che il socio della persona giuridica ha interesse all’attività criminosa realizzata dagli amministratori e dai manager della persona giuridica perché il ritorno in termini di profitto dell’attività criminosa è totalmente intangibile. Il socio è totalmente esente dalla responsabilità diretta perché non è mica stato lui a dire all’amministratore di realizzare l’attività criminosa. Però ne trae i benefici.
E’ l’assenza della responsabilità penale delle persone giuridiche è funzionale a questi meccanismi moderni che sono i reali meccanismi di destabilizzazione criminale della società democratica.
Oggi abbiamo un sistema basato sulla pena detentiva che poi, a livelli medio-bassi di gravità del reato, porta a un’assenza di risposta sanzionatoria che non mi preoccupa tanto per l’outsider sociale che poi in carcere ci finisce lo stesso, quanto per tutta quella fascia di criminalità molto delicata, o meglio di tutela anticipata dei beni, ci criminalità economica, di inquinamento politico-sociale.
Concludendo si può affermare che, anche da un punto di vista di una razionalità preventiva, l’abbandonare l’idea della sofferenza detentiva come il modello della pena per pensare a forme di risposta sanzionatoria più civili, più umane, meno simboliche e meno desocializzanti, diventerebbe sia una conquista in termini di promozione della dignità umana sia un incremento in termini di promozione.
Il desiderio di giustizia non deve trasformarsi in vendetta
Affrontare il tema “etica e punizione” significa lasciarsi interpellare da problemi enormi che toccano tanti aspetti della vita civile e sociale delle persone. Sono problematiche dalle quali anch’io, nella mia esperienza di Vescovo, mi sono visto e mi vedo più volte interpellato. Esse, infatti, trovano un loro punto specifico di applicazione nella realtà carceraria. Una realtà e una condizione sulle quali ho più volte riflettuto e che mi coinvolgono profondamente sia nel travaglio dei detenuti e dei loro parenti e nelle sofferenze delle vittime e dei loro familiari, sia nei problemi degli addetti al servizio carcerario, delle autorità, dei legislatori e degli studiosi, non pochi dei quali si interrogano sempre più sulle contraddizioni e le sofferenze che la pena detentiva vorrebbe risolvere, ma di fatto non risolve.
E’ davvero un problema estremamente complesso, dai risvolti spesso drammatici. Lo stanno a dimostrare diversi interrogativi, più volte ascoltati e che non possono non essere affrontati se si tiene presente che l’amministrazione della giustizia penale è una delle strutture essenziali della convivenza sociale e che il carcere è lo specchio rovesciato di una società, lo spazio in cui emergono le contraddizioni e le sofferenze di una società malata.
Appena si affronta il tema dell’amministrazione della giustizia penale, molteplici sono gli interrogativi che affiorano nell’opinione pubblica e nella coscienza personale.
Eccone alcuni:
- i tempi e le modalità di attesa del processo sono quelli richiesti da una “giustizia giusta”, efficiente ed efficace, o non rischiano di trasformare le carceri in luoghi di tortura psicologica e scuola del crimine?
- E’ morale trattare un cittadino da colpevole prima ancora di essere giudicato?
- Il numero illimitato dei detenuti, in certi Istituti, costretti a stare pigiati nello spazio angusto di una cella, che dovrebbe contenerne solo due o tre, per più di venti ore al giorno, è a norma di legge?
- Il trattamento dei detenuti è conforme a umanità e tale da assicurare sempre la dignità della persona, come impongono i principi costituzionali?
- L’igiene personale, il servizio sanitario, l’alimentazione, l’istruzione, il lavoro sono sempre assicurato in funzione di un recupero reale dei detenuti?
- Le punizioni inflitte dallo Stato ai cittadini delinquenti sono sempre morali?
- E’ umano ciò che stanno vivendo?
- E’ efficace per un’adeguata tutela della giustizia?
- Serve alla riabilitazione e al recupero dei detenuti?
- Cosa ci guadagna e cosa ci perde la società da un sistema del genere?
- E tutto ciò risponde veramente al bisogno delle vittime e al bisogno della difesa dei cittadini?
E se ne potrebbero aggiungere diversi altri…Ma dietro a tali interrogativi di carattere immediato, c’è una domanda di fondo che chiede di essere affrontata: quale visione globale di uomo, di società e di giustizia è rappresentata da questo stato di cose? E ancora più radicalmente: quale rapporto intercorre tra etica e punizione?
Di fronte a interrogativi come questo, non può non risultare la varietà delle possibili risposte. Esse dipendono dalla visione etica da cui si prende le mosse. Molte sono, infatti, le dottrine etiche nelle quali ci si imbatte, che concorrono a delineare un quadro di spiccato pluralismo, nel quale non risulta sempre facile orientarsi nelle scelte personali e in quelle sociali.
Per parte mia, nell’affrontare il rapporto etica-punizione, faccio riferimento alla visione cristiana dell’etica; una visione profondamente “umanistica”, in grado di interpretare adeguatamente la verità di ogni essere umano e di promuovere e orientare la crescita piena e armonica di ciascuna persona e il bene dell’intera umanità. Essa non abolisce la legge naturale, ma l’accetta pienamente perfezionandola e completandola. Ancora prontamente, è espressione di un Amore provvidente che valorizza, difende e promuove ogni persona umana, nei suoi diritti e doveri, e la dignità di ciascuno, indipendentemente dalla cultura, dalla classe sociale, dalla religione e dalla razza, essa valorizza, difende e riabilita pure i colpevoli oltre che le vittime.
In questa visione, il rimando è, anzitutto, all’insegnamento biblico, nel quale incontriamo diversi filoni: quello della proclamazione della dignità della persona; quello più specifico che riguarda la condizione di chi ha commesso atti di violenza; quello più generale del rapporto tra pena e perdono.
Molto ampio e insistente in tutta la rivelazione biblica è il filone che afferma la dignità della persona umana: E’ un filone che parte dalla creazione dell’uomo e della donna a immagine e somiglianza di Dio e attraversa tutta la Bibbia, fino alla manifestazione della figliolanza divina offerta a ogni persona umana.
Da tale filone deriva che la persona è il massimo valore,a motivo dell’immagine divina impressa in lei, a motivo della sua intelligenza e libera volontà, a motivo dello spirito immortale che la anima e del destino che l’attende. Ne segue che la dignità della persona non può mai essere valorizzata, snaturata o alienata nemmeno dal peggior male che l’uomo, singolo o associato, possa compiere. L’errore e il crimine, perciò, indeboliscono e deturpano la personalità dell’individuo, ma non la negano, non la distruggono, non la declassano al regno animale, inferiore all’umano. Perciò le leggi e le punizioni hanno senso se operano in funzione dell’affermazione, dello sviluppo e del recupero della dignità di ogni persona.
In questo contesto fondamentale si comprendono le indicazioni più puntuali e specifiche che la rivelazione biblica ci offre in ordine al tema della pena. Esse possono essere riassunte così:
a) Nella colpa è già insita la pena: in essa, infatti – come vanno gradualmente prendendo coscienza i peccatori di cui parla la Bibbia – è già insita una sconfitta, un fallimento, un’umiliazione, una sofferenza.;
b) La pena comporta una nuova e più grande responsabilità: chi ha sbagliato, infatti, dovrà, assumersi, come pena, responsabilità più gravi e onerose per riguadagnarsi la vita;
c) In ogni caso, la pena non cancella la dignità dell’uomo e non lo priva dei suoi diritti fondamentali: chi ha sbagliato, avendo negato la paternità di Dio e infranto i rapporti pacifici con il prossimo e con se stesso, dovrà percorrere un cammino di ritorno verso il recupero della propria dignità e il rientro nella comunità. In questo senso, la pena consiste nel percorrere un reale cammino di conversione;
d) Con tutto ciò, Dio non fissa il colpevole nella colpa identificandolo in essa; egli trasmette a tutti i colpevoli anche la speranza in un futuro migliore, mira alla riabilitazione completa, chiede loro di non ripetere l’errore e di risarcire il male compiuto con gesti positivi di giustizia e di bontà.
Alla luce di queste considerazioni, si possono evidenziare alcuni spunti per un’etica della punizione, quasi a dire a quali condizione si dà un utilizzo morale della punizione.
La premessa è che, di fronte alla delinquenza e al crimine, è necessario “reagire”, opponendosi al male, senza per altro compiere altri mali e altre violenze. E si tratta di una “reazione” che può comportare di fermare la violenza anche con l’arresto di chi, dominato dall’odio e dalla malignità, è pericoloso, trattenendolo per tutto il tempo necessario al recupero della sua ragione, della sua coscienza e umiltà, autentico seme di una vita rinnovata. In questo senso una punizione che passa attraverso la carcerazione va considerata come un intervento di emergenza, un estremo rimedio per arginare una violenza gratuita e ingiusta, impazzita e disumana; è un rimedio necessario per fermare coloro che, afferrati da un istinto egoistico e distruttivo, hanno perso il controllo di sé, calpestano i valori sacri della vita e delle persone e il senso della convivenza civile. Noi non ci troviamo, infatti, in una società che vive pienamente secondo il Vangelo: se davvero tutti vivessimo il Vangelo e ci sforzassimo di amarci scambievolmente, di praticare la regola del “fa agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” (cfr. Mt7, 12) e del “non fare a nessuno ciò che non piace a te” (Tobia 4,15), non ci sarebbero delitti né giudici né condanne. In realtà, siamo molto lontano dall’essere quella comunità perfetta a cui punta il Vangelo e abbiamo purtroppo bisogno di strutture che mostrino come nel mondo c’è il male e che cerchino di arginarlo contenendolo e favorendo forme di deterrenza. In ogni caso, il cristiano – se vuole essere coerente con il messaggio di Dio Padre misericordioso che vuole la conversione del peccatore e fa festa per lui – non potrà mai giustificare la punizione carceraria se non come strumento e momento per arrestare la violenza.
Come già accennato, però, ciò a cui la stessa punizione carceraria deve mirare è il recupero della ragione e di un modo corretto di vita da parte di chi si è macchiato di crimini. Ciò che rende etica una punizione è, in questo senso, la sua funzione pedagogico-medicinale. La punizione, cioè, deve puntare a favorire nel colpevole quell’umiltà e quell’autocritica che possono portare a cambiare la vita. Chi è vittima del proprio delitto deve poter compiere un’autocritica e va perciò aiutato a rientrare in se stesso, a scendere nel profondo del proprio spirito, ad andare oltre una conoscenza superficiale di sé. Bisogna aiutarlo anche a rinunciare ai falsi meccanismi di difesa che lo inducono a fuggire da sé, a giustificarsi e ad autoassolversi. La punizione, come intervento pedagogico e mai come vendetta, aiuta o dovrebbe aiutare il colpevole a capire il bene come il male. In questa linea, dovrebbe far crescere un atteggiamento di umiltà, che è coscienza dei propri limiti ed errori e che conduce necessariamente all’autopunizione, ad accettare dolore e sofferenza per un giusto amore di sé e del prossimo offeso. Con la punizione, non si tratta di portare all’umiliazione del colpevole, ma di far crescere la sua umiltà. Una applicazione morale della pena, quindi, non impone la tortura – né fisica né psicologica – del delinquente, ma promuove l’ascesi personale, faticosa e continua; non ordina di soffocare il reo nell’odio e nell’angoscia, ma vuole che in lui rinasca l’amore per la vita e la speranza di una nuova dignità e riabilitazione responsabile. Tutto ciò, però, - non è inutile ricordarlo! – non avviene in forza della sola valenza deterrente della pena, che pure non va totalmente misconosciuta, ma esige un’opera educativa della coscienza individuale e sociale, incominciando dall’infanzia sino alla maturità della persona: senza un serio e capillare impegno educativo la deterrenza della pena resta un’ideologia pericolosa e deresponsabilizzante.
Tutto questo, per altro, deve coniugarsi concretamente con la salvaguardia e la tutela dei più deboli. La preoccupazione per la tutela della società – che è grave dovere dell’autorità pubblica – non è per nulla in contrasto con il rispetto e la promozione della dignità del condannato. Né va dimenticato che, in termini di prevenzione generale, risulta più produttiva una politica criminale tesa a investire sulle capacità dell’uomo di tornare a scegliere il bene, che non una politica fondata sl solo fattore della forza e della deterrenza. Ciò, tuttavia, non esclude, ma deve comprendere tutte le necessarie cautele nel caso in cui sussusta il reale pericolo della reiterazione di delitti gravi, soprattutto su persone inermi e su bambini.
In questo orizzonte i riflessioni, occorre sottolineare, per un verso, che va ripensato e verificato il desiderio di giustizia che trabocca dentro ciascuno di noi quando siamo offesi e feriti o quando vediamo il nostro prossimo aggredito e ucciso. E’ necessario, infatti, vigilare costantemente perché il desiderio di giustizia non si trasformi in vendetta. Una pena lunga inflitta ai colpevoli o un’esecuzione capitale può soddisfare l’odio che si scatena nel cuore, ma non genera amore, riconciliazione e vita. Una giustizia – resa pienamente possibile dall’amore, anche per i nemici – chiede piuttosto di recuperare “il figlio prodigo”, che ha perso la dignità e la comunità, e ci obbliga ad agire per guarire l’ammalato, sempre membro del nostro corpo sociale, per ricondurlo ad una vita morale e riconciliata.
Per l’altro verso, ogni perdono, anche quello di Dio, esige il cambiamento dell’uomo colpevole, la conversione del suo cuore pietrificato in cuore umano. Si tratta, quindi, di mettere in azione il cuore, cioè l’intimo della persona, fino ad arrivare all’autodeterminazione di “ritornare” ad essere uomo giusto, fratello e figlio, a costo di qualsiasi sacrificio. Perché ciò possa avvenire, il colpevole ha bisogno di tempo e di aiuto: non basta l’isolamento né serve l’intervento dell’aguzzino; ha bisogno di una presenza amica e ideale, di una guida illuminata e forte, di un medico dello spirito, ma anche di una comunità che opera per il suo recupero ed è pronta a riaccoglierlo.E se un delinquente non volesse cambiare?
Il tempo a sua disposizione per convertirsi è lungo quanto la sua vita terrena. Ma se si ostinasse a non cambiare...Allora, anche per lui, si ergerà, definitivo, il giudizio di Dio: un giudizio che dice senza dubbio fedeltà e misericordia, ma che non tralascia di pronunciare parole di condanna per chi, con la sua ostinazione, si è già autocondannato. Riflettere su etica e punizione è, quindi, occasione per credere fermamente nella misericordia di Dio, per sperare nella conversione di ogni uomo colpevole, senza tralasciare di temere il castigo di Dio.