Un Natale di Speranza
Sono nella stanzetta che funge da sala per la catechesi. Intorno a me ci sono otto detenuti, ( più di otto non possono partecipare, anche se molti vorrebbero partecipare). Siamo a pochi giorni dalla celebrazione del Natale.
Come passerete il Santo Natale Fratelli?
Uno di loro risponde: “Il Santo Natale passerà come tutti gli altri giorni.”
Anzi – aggiunge un altro - speriamo che passi presto.
Sono cappellano del Carcere di Poggioreale da circa due anni e da circa due anni faccio la catechesi al Padiglione Genova dove sono ospitati i cittadini detenuti sottoposti al regime speciale del 416bis.
Per molto tempo questo importante principio è rimasto
lettera morta. Solo nel 1975, con l’approvazione del nuovo ordinamento
penitenziario (legge 26 luglio 1975, n°354) e con le successive integrazioni,
tra cui la più importante è la cosiddetta “legge Gozzini” (legge 10
ottobre 1986, n° 663), si è finalmente archiviato il vecchio regolamento del
1931 che focalizzava tutto sul comportamento del detenuto in carcere e si sono
inserite delle novità sostanziali, tra cui: l’individualizzazione della
pena, lo studio della personalità del condannato, il “trattamento” dello
stesso, le misure alternative e si sono istituiti ruoli di operatori tecnici,
quali gli assistenti sociali e gli educatori. Sono prescritti anche rapporti più
frequenti con i familiari ed è prevista la “partecipazione della comunità
esterna”. L’art. 17 così recita: “La finalità del reinserimento
sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche
sollecitando e organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o
associazioni pubbliche o private all’azione rieducativi. Sono ammessi a
frequentare gli istituti penitenziari con l’autorizzazione e secondo le
direttive del magistrato di sorveglianza, su parere favorevole del direttore,
tutti coloro che avendo concreto interesse per l’opera di risocializzazione
dei detenuti dimostrino di potere utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti
tra le comunità carcerarie e la società libera. Le persone indicate nel comma
precedente operano sotto il controllo del direttore.”
Oltre a questa previsione di carattere generale, è aperto,
per la prima volta, specificamente, l’accesso al volontariato: art. 78
(Assistenti volontari): “L’amministrazione penitenziaria può, su
proposta del magistrato di sorveglianza, autorizzare persone idonee
all’assistenza e all’educazione a frequentare gli istituti penitenziari allo
scopo di partecipare all’opera rivolta al sostegno morale dei detenuti ed egli
internati e al futuro reinserimento nella vita sociale.
Gli assistenti volontari possono cooperare nelle attività
culturali e ricreative dell’istituto sotto la guida del direttore, il quale ne coordina l’azione con quella di
tutto il personale addetto al trattamento”
Quale rieducazione può mai avvenire quando una persona esce dalla cella solo per due ore d’aria…al giorno?
Per la persona la detenzione può diventare fonte di angoscia, depressione, disturbi della personalità…che non solo non giova alla rieducazione e al recupero del cittadino detenuto, me accresce l’aggressività del soggetto nei confronti della società che per prima non applica la giustizia.
“L’attuale situazione penitenziaria si può
riassumere in queste cifre: i posti disponibili, secondo gli attuali standard,
sono 45.000. Nella sua relazione programmatica, nel maggio 2000, il ministro
Fassino dichiarava che la popolazione carceraria ammontava a 50.000 persone.
Oggi il numero dei detenuti è di circa 57.000. La situazione dei penitenziari
è variegata: a fronte di carceri di vecchia concezione e in condizioni al
limite dell’accettabilità ci sono strutture di nuova costruzione e nuova
concezione, predisposte anche a favorire l’attività di lavoro all’interno
del penitenziario.
Ho verificato di persona la situazione in alcuni
penitenziari dove la criticità è maggiore e devo dire che alcune situazioni
sono al limite della sopportabilità…. Sono impegnato personalmente su questo
tema e tre sono le strade che ho già individuato.
In primo luogo, è necessario ampliare la capacità
ricettiva del sistema penitenziario, avviando a pieno regime fin da subito
strutture come quelle di Bollate (Milano), valutando la possibilità di riaprire
le strutture abbandonate e ristrutturando l’esistente.
In secondo luogo, si è deciso di studiare soluzioni
differenti da quelle esistenti per quanto riguarda i tossicodipendenti, che, lo
ricordo, rappresentano ben il 33% dell’intera popolazione carceraria. Ritengo
sia possibile dare una risposta diversa dalla detenzione pura e semplice,
raggiungendo il duplice scopo di alleggerire la pressione sui penitenziari e di
dare una sia pur parziale soluzione alla piaga sociale rappresentata dalla
droga.
In terzo luogo, si dovrà intervenire sull’altro
grande fattore di affollamento dei penitenziari; la presenza di molti
extracomunitari, attualmente 17.000 individui…E’ mia personale
convinzione che la permanenza in cella senza svolgere alcuna attività durante
la giornata non giovi al detenuto. Occorre stabilire il principio che la pena
vada scontata con l’obbligo al lavoro. In tale prospettiva, si dovranno
compiere i passi necessari per la rimozione degli ostacoli che ancora si
frappongono al concreto conseguimento di questo obiettivo. Inoltre, il lavoro
deve rispondere il più possibile ad un’effettiva utilità sociale, tale da
costituire un concreto “risarcimento” che il condannato deve corrispondere
alla società…” Lo stesso ministro Castelli constatando l’emergenza cui si
trovano a dover gestire alcuni Istituti, tra cui la CC di Poggioreale, si
domanda: “…come si sia potuto lasciare che la situazione degenerasse fino
a questo punto…”
La nostra speranza è che l’attuale ministro della Giustizia Roberto Castelli davvero si impegni fino in fondo perché ci sia una svolta. E’ questo a cominciare dagli Istituti dove l’emergenza è più acuta.
La Casa Circondariale di Poggioreale
Anno di costruzione 1908
Capienza detenuti 1100
Presenze effettive: 2361
Turni massacranti per gli agenti penitenziari dovuti al sovraffollamento e alla mancanza di organico circa 700 unità.
Coloro fra i detenuti che lavorano sono appena 350 la maggior parte extracomunitari.
Un discorso a parte deve essere dedicato ai reparti di alta sorveglianza ( Il Genova e il Livorno) dove sono reclusi cittadini presunti facenti parte di associazioni di stampo mafioso.
L’articolo che prevede lo stato speciale di coloro che sono accusati di questo reato è definito nell’articolo 416 bis del codice emanato in tutta fretta per dare una risposta all’omicidio del generale Della Chiesa.
L’articolo così recita: “Chiunque fa parte di
un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con
la reclusione da tre a sei anni. Coloro che promuovono, dirigono o organizzano
l’associazione (416) sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da quattro
a nove anni.
L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per se o per altri ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali.”
A Poggioreale questi detenuti due a volte tre per cella, non partecipano ad alcuna attività trattamentale salvo un incontro di catechesi settimanale di circa un’ora, ma non possono recarsi in chiesa per le funzioni religiose. Non sono ammessi a nessun lavoro per cui sono costretti a rimanere in cella per 22 ore al giorno su 24.
- niente telefonate
- acquisto generi alimentari da cuocere, divieto di usare fornelletti
- corrispondenza e colloqui con altri detenuti
- ora d’aria ridotta a due ore. Sempre da solo
- ricevere pacchi (ne è concesso uno al mese, peso massimo cinque chili di biancheria)
- organizzare attività culturali partecipare ad attività sindacali
- inviare denaro all’esterno del carcere. (uniche eccezioni pagamento avvocato e multe)
- ricevere somme di denaro dall’esterno
- colloqui con i familiari (massimo uno al mese durata un’ora, attraverso vetro divisorio)
- nessun contatto fra detenuto e visitatori
E’ difficilissimo per lo stesso cappellano poterli visitare anche quando questi lo richiedano.
Il dottor Giancarlo Caselli nel libro-intervista scritto insieme con il Dottor Antonio Ingroia…..: “L’eredita scomoda” a cura di Maurizio De luca e edita da Feltrinelli 2001 a pag. 166 e seguenti parla del problema del regime carcerario speciale dei detenuti accusati di associazione e ne giustifica l’esistenza affermando che questo regime speciale è l’unico modo per spezzare il vincolo mafioso e ristabilire l’equità della pena che, prima dell’approvazione dell’articolo 416 bis e dell’articolo 41 bis, era pregiudicata dal regime di privilegio di cui, di fatto, usufruivano coloro che facevano parte di associazioni.
La domanda che io come cappellano mi faccio però è questa: “Anche
ammesso che il regime speciale regolamentato dagli articoli in questione fossero
l’unico modo per spezzare il vincolo mafioso, questo dovrebbe sempre, per il
dettato della costituzione, servire alla rieducazione e al recupero del
detenuto. Allo stato attuale della detenzione nel carcere di Poggioreale non si
vede come questo regime possa servire alla rieducazione visto la totale assenza
di qualsiasi attività trattamentale!
Questo modo di agire suppone una sfiducia totale
nella rieducazione e nel recupero che ci riporta indietro di millenni!”
Cosi il card. Martini : “…Come già accennato, però, ciò a cui la stessa punizione carceraria deve mirare è il recupero della ragione e di un modo corretto di vita da parte di chi si è macchiato di crimini. Ciò che rende etica una punizione è, in questo senso, la sua funzione pedagogico-medicinale. La punizione, cioè, deve puntare a favorire nel colpevole quell’umiltà e quell’autocritica che possono portare a cambiare la vita. Chi è vittima del proprio delitto deve poter compiere un’autocritica e va perciò aiutato a rientrare in se stesso, a scendere nel profondo del proprio spirito, ad andare oltre una conoscenza superficiale di sé. Bisogna aiutarlo anche a rinunciare ai falsi meccanismi di difesa che lo inducono a fuggire da sé, a giustificarsi e ad autoassolversi. La punizione, come intervento pedagogico e mai come vendetta, aiuta o dovrebbe aiutare il colpevole a capire il bene come il male. In questa linea, dovrebbe far crescere un atteggiamento di umiltà, che è coscienza dei propri limiti ed errori e che conduce necessariamente all’autopunizione, ad accettare dolore e sofferenza per un giusto amore di sé e del prossimo offeso. Con la punizione, non si tratta di portare all’umiliazione del colpevole, ma di far crescere la sua umiltà. Una applicazione morale della pena, quindi, non impone la tortura – né fisica né psicologica – del delinquente, ma promuove l’ascesi personale, faticosa e continua; non ordina di soffocare il reo nell’odio e nell’angoscia, ma vuole che in lui rinasca l’amore per la vita e la speranza di una nuova dignità e riabilitazione responsabile. Tutto ciò, però, - non è inutile ricordarlo! – non avviene in forza della sola valenza deterrente della pena, che pure non va totalmente misconosciuta, ma esige un’opera educativa della coscienza individuale e sociale, incominciando dall’infanzia sino alla maturità della persona: senza un serio e capillare impegno educativo la deterrenza della pena resta un’ideologia pericolosa e deresponsabilizzante.”
Don Bruno Oliviero