|
|
Intervista a Ornella Favero
Ho avuto modo di conoscere Ornella Favero fin dai primi anni del mio ministero sacerdotale come Cappellano del Carcere di Poggioreale, siamo nel 2000. E questo perché fin dall’inizio ho capito che per svolgere questo ministero era necessaria l’umiltà di apprendere da quelli che prima di me avevano avuto a che fare con il cosiddetto “Pianeta Carcere”è stato così che ho cominciato a partecipare ai Convegni che il Seac propone con scadenza annuale in tutt’Italia. Era sempre presente e con i suoi interventi riusciva sempre ad "accendere" l'entusiasmo dei volontari e sacerdoti presenti. Quello che mi ha sempre colpito in Ornella è la sua profonda preparazione e la sua passione per la difesa dei diritti delle persone più deboli.
P. Bruno: Ornella, parlaci un po’ di te Ornella: Io sono veneta, nata a Padova, laureata in lingue e letterature straniere moderne, prima lingua russo (scelto perché ero appassionata per la letteratura), ho perfezionato la conoscenza del russo a Mosca e poi ho insegnato russo in un liceo sperimentale a Padova, prima di scegliere il lavoro di responsabile di un Centro di documentazione interscolastico sempre a Padova. Sono anche giornalista, collaboro a diversi giornali (Vita, Mattino di Padova, Communitas, ho appena vinto un premio giornalistico della Regione Veneto, il premio Vesce, e ci tengo a dirlo perché è stato proprio merito di un articolo sul carcere per la rivista Communitas), faccio volontariato in carcere da dieci anni.
P. Bruno : Come ti sei avvicinata al mondo del volontariato nelle carceri Ornella: Ero dentro Lotta Continua e sono amica di Adriano Sofri, e le sue vicende giudiziarie in qualche modo hanno pesato sulla mia scelta. Però ci sono state altre ragioni, fra le quali che mia sorella era insegnante nelle scuole medie del carcere, e mi aveva invitato a fare delle lezioni e poi a incontrare dei detenuti per vedere di far funzionare meglio la biblioteca (sono una esperta di biblioteche, il Centro di cui sono stata responsabile per anni disponeva di una biblioteca ricca di iniziative e attività di lettura e di scrittura).
P. Bruno: Cosa pensi adesso di quel tempo trascorso in LC e di quell'utopia di creare una società più giusta ecc. Ornella: Cosa ne penso del mio passato in Lotta Continua? Penso che è stato un periodo importante della mia vita, in cui ho imparato un sacco di cose che i ragazzi oggi difficilmente riescono a imparare: ho imparato a parlare, difendere le mie idee, scrivere (la passione per la scrittura mi viene da lì), ho imparato che occuparsi delle persone più deboli non può essere solo una scelta individuale, deve andare al di là, è importante capire che i temi sociali sono anche politici, ed è giusto cercare un'idea alta della politica, e non sparare a zero indiscriminatamente su chi fa politica (a me non interessa la politica, ma mi interessa che ci sia qualcuno che la fa in modo serio, magari un po' gli piace il potere, ma chi se ne frega se poi è attento ai bisogni delle fasce più deboli della popolazione?). Ho fatto molti errori, ma io appartenevo a quella parte di Lotta Continua che si è battuta con le unghie e con i denti contro il terrorismo, e che ha saputo sciogliersi quando ha visto che la follia dilagava, e quindi non mi sento più di tanto responsabile di scelte violente, anzi credo che abbiamo fatto da argine alla violenza che attraversava la società. E poi mi è rimasta un'idea di fondo, che non si riesce a essere un po' felici se si parte sempre da "io, io, io... e gli altri": guarda, alle persone detenute, che difficilmente concepiscono l'idea che si possa fare qualcosa di "gratuito" l'unico pensiero che cerco di trasmettere è che, quando si entra nella logica di fare qualcosa anche per gli altri, si vive meglio, ci si appassiona, ci si diverte anche, si è meno schiavi delle proprie piccole insoddisfazioni. Ecco, per me Lotta Continua è stata una fucina di passioni, anche sbagliate, per carità, ma comunque io credo che senza passione non si trasmette nulla agli altri. E, nonostante tutto, anche il senso critico mi arriva da lì, da certe feroci battaglie culturali delle donne per dire basta alla violenza, da qualsiasi parte venisse.
P. Bruno: Fai volontariato da dieci anni: Cosa è cambiato nelle carceri dopo l’indulto o che cosa dovrebbe cambiare? Ornella: Occorrerebbe ripensare la pena: Stare in carcere e non capire il senso della pena, e ritenere di stare subendo un’ingiustizia è quanto di meno rieducativo ci sia nella vita di una persona detenuta. Eppure, nelle carceri pre-indulto era la norma, ora si sarebbero create però le condizioni per voltare pagina. “Si sarebbero”, diciamo, perché chi vive in galera non ha ancora percepito grandi (e spesso neppure piccoli) cambiamenti… allora torniamo a dire: “se non ora quando”? Se non si riparla ora, con i numeri tornati nella normalità e gli spazi che pemettono di respirare, di rieducazione, o meglio di reinserimento, e di tempo del carcere dedicato a progettare una opportunità per ogni persona rinchiusa, se non lo si fa adesso non ci saranno più alibi… Non sarebbe forse il caso di affrontare senza paraocchi alcuni nodi del problema del senso della pena? L’uso del tempo per esempio: una pena scontata dove si può fare buon uso del tempo è radicalmente diversa da una pena fatta di tempo morto. L’uso delle risorse, provando davvero a fare un monitoraggio delle spese e un ragionamento sugli sprechi, alla luce del sole e degli sguardi e dei controlli attenti dei cittadini liberi. E ancora, il passaggio dal “dentro” al “fuori”, l’anello più debole di una pena che per tendere al reinserimento non può certo restare tutta “dentro”. E allora non sarebbe ora di avviare una riflessione comune con la Magistratura di Sorveglianza? Perché, e concludo con una domanda di quelle un po’ brutali, l’Istituzione carcere, che deve elaborare per ogni detenuto un progetto individualizzato di percorso verso la libertà, non si misura più spesso pubblicamente con quella Magistratura di Sorveglianza, che di città in città applica in modo così diverso la legge? E non basta dire che ogni persona è una storia a sé, lo sappiamo bene, ma sappiamo anche che è difficile pensare che, per esempio, a Padova vivano detenuti più maturi, responsabili e degni di avere un’altra possibilità, e quindi vadano in misura alternativa in tanti, e invece a …(e qui ci starebbero i nomi di tante altre città) siano tutti pericolosi e si facciano tutta la galera o quasi senza nessuna misura alternativa. Don Bruno Oliviero |