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Associazione Antigone 4° Rapporto sulle condizioni di detenzione, Carocci editore, ottobre 2006, pag. 194
Il 29 luglio 2006, a meno di tre mesi dal suo insediamento, il Parlamento ha approvato, un pò inaspettatamente, un esteso provvedimento di indulto. Tra polemiche, resistenze e sollevazioni medianiche, una maggioranza ampia è riuscita a non farsi prendere dal panico. La lontananza dalla successiva tornata elettorale ha aiutato il legislatore. Ora, più o meno, ci sono tanti detenuti quanti sono i posti letto. Il ritorno alla legalità e alla normalità penitenziaria induce a un paio di considerazioni.
Quei numeri costituiscono una memoria da tenere sempre presente quale monito di fronte ai rischi di una eventuale mancata riforma del codice penale nella attuale XV legislatura. Il codice Rocco risale al 1930. Le speranze di una riforma complessiva del sistema penale si sono invece infrante nei primi anni Novanta. Il legislatore, sull’onda di piccole o grandi, reali o presunte emergenze, ha moltiplicato a dismisura le fattispecie di reato sino a renderne impossibile la conoscenza allo stesso organo giudicante, e ha messo mano ripetutamente a quello stesso codice che intendeva sancire un’effettiva parità delle parti nel processo e un uso ponderato della custodia cautelare, facendogli fare altrettanti passi in direzione opposta. Dal 1989 a oggi si è duplicata la popolazione detenuta e si sono decuplicate le persone in esecuzione penale esterna. Non c’è questione che non sia trattata con le armi del sistema penale. Il carcere viene minacciato in oltre 5000 leggi fuori codice. Due leggi speciali producono direttamente o indirettamente buona parte della popolazione detenuta: la legge sull’immigrazione e quella sulle droghe. Quest’espansione del sistema penale – frutto di interventi parcellizzati, a coprire una a una singole paure – è andata di pari passo con lo smantellamento delle garanzie sociali. La riduzione delle risorse per il walfare ha escluso intere categorie di persone dal sistema della sicurezza sociale, lasciando loro il solo ruolo di bersaglio privilegiato del sistema penale (tossicodipendenti e immigrati). Tutto questo ha origini lontane, oltreoceano. Negli Stati Uniti, in piena era reaganiana, è partita l’era del grande internamento. L’Europa, prima fra tutte l’Inghilterra, si è ispirata anch’essa a politiche di “tolleranza zero” nei confronti delle marginalità sociali. L’immigrazione e le tossicodipendenze sono trattate solo ed esclusivamente come una questione di ordine pubblico. Gli anni berlusconiani hanno lasciato una dura eredità in termini di leggi e pratiche di governo. Il sistema penale si è ulteriormente irrobustito con l’introduzione di nuove norme sulla immigrazione, sulle droghe, sulla recidiva e sulla legittima difesa; tutte di ispirazione illiberale. L’indulto allevia il problema penitenziario per un periodo limitato di tempo. Se non si vuole tornare a carceri iperaffollate bisogna mettere mano al codice del penale fascista. Il sistema penitenziario è infatti un’appendice del sistema penale. Per questo, se si vuole aspirare a un modello di carcerazione rispondente alle finalità costituzionali, va costruito un altro e più snello sistema dei reati e delle pene. Vanno abrogati i provvedimenti “Bossi-Fini” sull’immigrazione, “Fini-Giovanardi” sulle droghe, “Cirielli-Vitali” sulla recidiva, “Calderoni-Lussana” sulla legittima difesa. Va contestualmente riformato il codice penale, in un’ottica realmente garantista, in cui il carcere divenga l’extrema ratio del sistema punitivo; vanno ridotte le fattispecie di reato e rivisto il sistema sanzionatorio. Il codice penale che verrà dovrà contenere tutto ciò che è illecito penale, deve rinunciare alle contravvenzioni, difendere solo beni protetti costituzionalmente, non occuparsi i questioni sociali quali la tossicodipendenza e l’immigrazione. La risoluzione delle problematiche legate a queste categorie svantaggiate va affrontata con interventi specifici a livello di inclusione sociale e non con l’imposizione di una seconda emarginazione all’interno del carcere, in un meccanismo contorto di emarginazione che crea emarginazione. La riforma del sistema sanzionatorio si dovrà articolare in diversi passaggi: modifica dei massimi e minimi edittali, abolizione dell’ergastolo, previsione di più estese sanzioni interdittive. E’ necessaria una differente disciplina delle misure alternative non più inquadrate in un’ottica meramente suppletiva o integrativa del carcere, quale premio finale di un percorso trattamentale , ma elevate al rango di pene edittali, previste direttamente dal codice penale e applicate dal giudice nella sentenza di condanna. Si supera così anche l’odierno binomio misure alternative-pene brevi: il periodo di osservazione per la concessione delle misure alternative spesso supera la durata totale della pena inflitta. I lavori della commissione governativa di riforma del codice penale non devono durare tutto l’arco della legislatura, altrimenti sono inutili. La prima parte del codice può ispirarsi a quanto già previsto nella bozza predisposta da Carlo Federico Grosso nella XIII legislatura. E’ invece importante che la commissione si concentri sulla seconda parte, quella che definisce i reati e le pene nel dettaglio. E’ lì che si gioca la partita della razionalizzazione e della minimizzazione del diritto penale. L’indulto approvato in extremis prima della chiusura estiva delle Camere offre una ghiotta occasione a chi gestisce l’esecuzione penale. Si possono finalmente applicare le leggi – anche grazie ai risparmi di spesa determinati dal minor numero complessivo dei detenuti – in vigore: la sanità deve diventare di competenza del Servizio sanitario nazionale (“riforma Bindi” del 1999), il lavoro interno va incentivato (“riforma Smuraglia”, legge 22 giugno 2000, n. 193), il regolamento di esecuzione (“progetto Margara” entrato in vigore nel 2000) va monitorato e attuato. L’ordinamento penitenziario deve divenire vero e proprio “codice dei diritti delle persone private della libertà”. L’elencazione dettagliata dei singoli diritti dei detenuti garantisce una migliore funzionalità del diritto al reclamo, strumento oggi del tutto inefficace come peraltro sottolineato dalla stessa Corte costituzionale nella nota sentenza 11 febbraio 1999, n. 26 in cui già si parlava di un’incostituzionale carenza di mezzi di tutela giurisdizionale dei diritti di coloro che si trovano ristretti nella loro libertà personale. Insieme alle maggiori incisività ed effettività del diritto al reclamava prevista l’introduzione della figura dell’Ombudsman dei luoghi di detenzione. E’ necessario, anche alla luce di obblighi internazionali (vedasi protocollo alla convenzione ONU sulla tortura , firmato ma non ancora ratificato dall’Italia), istituire tale organismo a tutela di tutti coloro che sono in una situazione di privazione della libertà . I fatti di Genova, Napoli e Sassari sono emblematici al riguardo. Va approvata la legge, da troppo tempo pendente alle Camere, che ne definisca compiti e poteri, chiarendo la regolamentazione dell’ufficio centrale e i rapporti che devono intercorrere tra questo e gli uffici locali, e tra i diversi uffici locali. Da troppo tempo, ormai vent’anni, l’Italia è anche inadempiente rispetto agli obblighi internazionali che impongono l’introduzione del reato di tortura. Nella scorsa legislatura c’è stata la triste discussione parlamentare con un emendamento di origine leghista che voleva salvare il monotorturatore. Ora, senza indugi, va colmata tale lacuna e codificato il crimine di tortura così come definito dalle Nazioni Unite. In questo ambito è altresì importante che gli appartenenti alle forze dell’ordine , dai poliziotti sino agli agenti penitenziari, si dotino di un codice etico di condotta, affinché le loro azioni siano sempre ispirate alla promozione -e non alla negazione- dei diritti umani. Di non minore rilievo è la previsione del diritto di voto per detenuti ed ex detenuti. Il fine risocializzante è di per sé negato se si comprimono i diritti politici. Per quanto riguarda i minori vanno previste regole ad hoc di vita penitenziaria, ispirate anche qui a logiche esclusivamente socializzanti, così come sollecitato dalla Corte costituzionale. In generale va ricercato un sistema di regole e poteri che meglio permetta l’affermazione e la tutela dei diritti. Sandro Baratta ci invitava a destrutturate il diritto alla sicurezza riqualificandolo come sicurezza dei diritti. La definizione dei diritti deve essere mantenuta su un piano decisionale il più alto possibile (statale o finanche sopranazionale, per soddisfare il principio di uguaglianza e universalità delle prestazioni). Questo significa che a livello statale o sopranazionale deve restare la competenza sugli indirizzi a cui le politiche devono rigorosamente attenersi. Le iniziative, invece, dirette a tradurre concretamente e rendere fattuali gli orientamenti stabiliti a livello nazionale o sopranazionale, possono essere assegnate a livello locale, perché solo questo livello può garantire una buona integrazione delle politiche sul territorio. Inoltre, quello territoriale è un livello che permette una maggiore prossimità fra cittadini e rappresentanza e risponde meglio ai legittimi bisogni di partecipazione sociale. Trasferire competenze a livello regionale o locale fa emergere alcuni nodi critici riguardanti il contenuto delle competenze stesse: stante l’unicità delle norme dell’ordinamento penitenziario, che non può essere messa in discussione, la domanda è quale forma possa assumere il federalismo nella gestione/organizzazione del sistema penitenziario, posto che il sistema attuale centralizzato e gerarchico non funziona. La sperimentazione di modelli alternativi che vedano il coinvolgimento di soggetti diversi dal ministero della Giustizia sarebbe auspicabile e la moltiplicazione dei centri di gestione del sistema penitenziario potrebbe avere l’effetto benefico di rompere il senso di monoliticità e opacità proprio dell’attuale amministrazione penitenziaria. Bisognerebbe quindi sottrarre pezzi di competenza gestionale all’amministrazione penitenziaria e in particolare trasferire agli enti locali tutte le facoltà sul trattamento (ivi compresa la dipendenza funzionale e gerarchica di assistenti sociali, psicologi ed educatori) anche per legittimare una situazione in cui gli enti locali già si fanno carico di finanziare pezzi interi del trattamento senza avere alcun controllo, né mangement sullo stesso. Inoltre il trasferimento delle competenze consentirebbe di integrare gli interventi interni al sistema penale con quelli che gli enti locali già attuano sul territorio. Infine, provare a sottrarre gli educatori al controllo dell’amministrazione centrale potrebbe garantire loro maggiore agibilità e indipendenza rispetto a chi svolge funzioni di custodia. Ogni regione –il Lazio si appresta a farlo- dovrebbe avere una legge-quadro sul carcere, per evitare “interventi spot" e assicurare programmazione e massimizzazione delle risorse. In conclusione appare importante riaffermare che una svolta autenticamente federalista non deve e non può significare privatizzazione del sistema penitenziario, ovvero ingresso de privati nell’ideazione, costruzione e gestione degli Istituti penali. Questo, come affermato dalle nazioni Unite, pone a rischio i diritti fondamentali dei detenuti. Poche pagine per alcune idee finalizzate a un programma di governo alternativo del sistema penale. Tutto quello che di buono può venire per le carceri italiane richiede il coraggio di scelte non necessariamente popolari, come è stato l’indulto. Ma è popolare aumentare le tasse? Eppure a volte può essere giusto e necessario.
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