Dinanzi alla fragilità rappresentata dall’errore

Giustizia e prevenzione in rapporto alle condotte criminose

 

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Contributo al IV Convegno ecclesiale nazionale

(Verona 16-20 ottobre 2006)

 

by Prof. Luciano Eusebi

Ordinario di Diritto penale nella Università Cattolica del Sacro Cuore – Piacenza

 

Sommario: 1.Ripensare il significato umano e cristiano della giustizia nella risposta a ciò che è male. –2. L’apporto della prospettiva biblica. – 3. Colpevolezza e corresponsabilità: sul ruolo della prevenzione primaria. – 4). Quali esigenze eticamente sostenibili rispetto alla avvenuta commissione di un fatto illecito? – 5. La posizione della vittima. – 6. Il perdono come dimensione della giustizia, -7. La necessità di riformare il sistema sanzionatorio, nel quadro di un indirizzo riparativo e riconciliativi della giustizia che si opponga a intenti di esclusione sociale. – 8. Profili di una giustizia più feconda e più umana.

 

 

  1. Ripensare il significato umano e cristiano della giustizia nella risposta a ciò che è male

 

Attraverso il messaggio per il Giubileo nelle carceri tenutosi il 9 luglio dell’anno 2000 il papa Giovanni Paolo II indicava con coraggiosa chiarezza l’obiettivo di una riprogettazione dei sistemi penali: i giuristi- così il documento in estrema sintesi – sono chiamati “a riflettere sul senso della pena e ad aprire nuove frontiere per la collettività” (n.5). Alle considerazioni sulla condizione e sulla stessa pastorale penitenziaria veniva dunque anteposta l’esigenza di non dare per scontate le modalità con cui risulta comunemente affrontato il problema della trasgressione – il reato – di regole attinenti alla salvaguardia dei diritti fondamentali, vale a dire l’esigenza di interrogarsi su che cosa abbia senso fare. Sotto il profilo razionale e morale, quando condotte qualificate criminose siano poste in essere e, in genere, per poterle prevenire.

Con riguardo a questo tema ineludibile, può essere subito delineata un’opzione di fondo, la quale, se risulta solidamente argomentabile sia sotto il profilo etico-filosofico, sia in rapporto al conseguimento di risultati preventivi stabili e non solo apparenti, trova altresì sostegno nella visione biblica della giustizia e nel compimento della medesima che si attua in Gesù.

Si tratta, in effetti, di chiarificare che la risposta prevista e applicata nei confronti di un comportamento negativo (di un comportamento implicante la frattura di vincoli solidaristici intersoggettivi) non può consistere nel riproporre in termini di reciprocità, verso l’autore, il contenuto negativo del fatto realizzatosi: piuttosto sarà necessario che simile risposta assuma, rispetto a tutte le parti coinvolte, un significato opposto a quello –negativo- proprio della condotta offensiva..

Ciò non pone certo in discussione che le conseguenze giuridiche del reato comportino, comunque le si configuri, effetti umanamente impegnativi per chi abbia violato la legge e idonei a contrastare –in questo senso, negandola – una sua volontà di prevaricazione. Ma altro è concepire la risposta summenzionata secondo modalità le quali, implicando determinati oneri, risultano determinati onori, risultano nondimeno  significative  (soprattutto ai fini dell’integrazione sociali). Anche per il destinatario di medesimi, altro è ritenere che la sanzione assolva ai suoi compiti per il fatto di costituire purchessia una sofferenza : in tla modo non differenziandosi, quanto ai contenuti, della negatività, dell’illecito commesso, che semplicemente dovrebbe riprodurre.

La giustizia, dunque, non consiste in una dinamica formale di reciprocità, cioè nell’agire in modo analogo all’agire altrui. Del pari, il carattere di reciprocità dell’agire verso un altro individuo secondo le medesime caratteristiche negative della sua condotta non rende quelle caratteristiche conformi a giustizia, così da trasformarle in un bene. Al contrario la giustizia richiede che dinanzi al male si agisca pur sempre secondo progetti di bene, che risultino tali in rapporto a ciascuno dei soggetti interessati.

Tutto questo significa che la risposta al reato non può eludere, sulla base della pretesa eticità in sé del rispondere al negativo con un negativo asserito corrispondente, il giudizio razionale e morale cui qualsiasi atto umano dev’essere sottoposto circa i suoi contenuti e gli scopi attraverso di essi perseguiti. Dato un illecito, non esiste, d’altra parte, alcuna sanzione predeterminata che, per sua stessa natura, ne rappresenti il corrispettivo dovuto.

Nondimeno, quanto più tipicamente ha caratterizzato e continua a caratterizzare l’idea del punire è la visione della pena come un’entità di sofferenza la quale dovrebbe esprimere, rendendolo manifesto, il disvalore ascritto al fatto illecito: così che proprio dal negativo minacciato e applicato come corrispondente alla negatività di quel fatto – cioè dal criterio più o meno drastico di proporzione prescelto tra la gravità dei reati e l’asprezza della pene – dipenderebbe la prevenzione delle condotte criminose e, pertanto, il bene della società.

La pena, in una simile ottica, non è pensata nei termini di un percorso umanamente significativo per l’autore della condotta illecita e nell’ambito dei rapporti interpersonali che quest’ultima abbia coinvolto. Al momento in cui la pena viene determinata, il condannato –solo che sia ritenuto colpevole e, in particolare, imputabile – non conta nulla come persona : è assimilato a un corpo, sul quale in forza della pena inflitta dovrebbe progressivamente dispiegarsi nel tempo la sofferenza espressiva del male compiuto; e nel compimento di quel male finisce per essere identificata, ai fini della condanna, la sua intera esistenza.

E solo dopo l’inflizione della condanna che il nostro ordinamento giuridico vorrebbe piegare quest’ultima  – non costruita in vista di tale obiettivo  - a fini di reintegrazione sociale; ma ciò, da un lato, rende poco credibili gli intenti risocializzativi normativamente dichiarati e fa sì, dall’altro, che gli strumenti (sospensivi, sostituitivi e alternativi) i quali dovrebbero consentire tale risultato siano percepiti come concessioni sempre revocabili e istanze umanitaria, di per sé in contrasto con l’interesse preventivo della collettività.

Non sorprende, di conseguenza, come l’ambito applicativo dei suddetti strumenti abbia potuto subire negli ultimi anni, sia sul piano teorico che su quello applicativo, progressive erosioni e, soprattutto, come abbia trovato spazio anche nel nostro paese la visione dell’agente di reato – specie se identificato, pur in presenza di illeciti non gravi, quale disturbatore dell’ordine quotidiano – in veste di nemico, che andrebbe estromesso il più a lungo possibile dal contesto sociale: le disposizioni, ad esempio, della legge n. 251 del 2005 (c.d. ex Cirielli), specie per quanto concerne le nuove norme in materia di recidiva, muovono palesemente in questo senso e, in mancanza di un necessario ripensamento, porteranno a dilatare in maniera massiccia l’ingresso e la permanenza in carcere di quei soggetti fortemente svantaggiati dal punto di vista sociale che già oggi costituiscono la netta maggioranza della popolazione penitenziaria.

Appare ineludibile, pertanto, riconsiderare il modo stesso d’intendere che cosa significhi fare giustizia dinanzi a condotte illecite e come ciò possa essere in grado d assumere significato preventivo: anche in considerazione del fatto, tanto più rilevante per la comunità cristiana, che dell’identificazione fra giustizia e reciprocità comportamentale  - per cui sarebbe giusto agire nei confronti di una realtà negativa in modo analogo alla sua negatività – si sono costantemente ricercate nel corso della storia e continuano a essere proposte motivazioni di carattere religioso.

 

 

  1. L’apporto della prospettiva biblica

 

Nulla tuttavia, si rivela maggiormente estraneo alla Scrittura, già nella riflessione veterotestamentaria, dell’idea secondo cui l’incontro, che segna la vicenda esistenziale di ogni essere umano, col negativo (anche con quello incolpevole) giustifichi il conformarsi a quest’ultimo dell’agire di chi ne sia colpito o dello stesso agire, nei confronti del male, da parte della comunità: le realtà negative (le altrui scelte di male, ma anche la sofferenza propria e quella degli altri e, in radice, la condizione mortale, come pure il retaggio dei propri stessi peccati) costituiscono, piuttosto, la sfida –l’unico terreno praticabile- per affermare ciò che è altro dal male, il che rappresenta sempre una presa di iniziativa, uno scarto, un sussulto d’orgoglio a partire dalla constatazione di quanto si manifesta come frattura, incompiutezza, dolore.

E’ proprio, infatti, della riflessione religiosa il convincimento per cui –nonostante l’inciampo con le manifestazioni del male che sembrano imporsi, trovando avallo nell’oblio rappresentato dal male radicale della morte – non è privo di senso agire dinanzi al negativo secondo il suo opposto, dato che solo una simile opzione appare realizzante e tale da produrre relazioni autenticamente umane, fino a manifestarsi in Dio come pienezza di vita- costituendo adesione al suo essere amore- anche quando si dovesse accompagnare, nell’orizzonte mondano, alla sconfitta e alla croce.

Il male dal punto di vista biblico non diviene realtà negativa, per chi abbia compiuto, nel momento in cui risulti punito, ma dimostra la sua intrinseca negatività in quanto, nonostante l’apparenza contraria, comporta di per se sesso – proprio in chi, come Adamo e Caino, ne sia stato artefice – fallimento ed estraniazione. Richiede di essere svelato, ma nel medesimo tempo necessita della disponibilità a un approccio che non ricerchi, a sua volta, il male del suo autore, così da spezzare la catena delle ritorsioni generata dal proposito di conformare le condotte a quel che abbia caratterizzato le condotte altrui (chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere” (Gen.4,14=

L’atteggiamento di chi facendo verità sul male (ne chiede conto, attestando che nessun male resterà occulto) permette la liberazione dal male – di ci va a cercare il peccatore e torna a dargli una strada – è quello di Dio. In tale atteggiamento la Bibbia riconosce la giustizia di Dio: egli è giusto, perché rimane fedele a se stesso, e al suo essere liberatore, nonostante l’infedeltà dell’uomo.

Ciò trova manifestazione piena in Gesù, “giusto per gli ingiusti” (1Pt 3,18), il “giusto” (Is 53,11; Mt 27,19; lc 23, 47; At3,14; 7,52; 22,14; 1 Gv 2,1) “venuto nel mondo per salvare i peccatori” (1 Tm 1,15)

Ne deriva che la giustizia non si esprime in atti di reciprocità o ritorsione, ma in un agire riferito al male e tuttavia radicalmente altro rispetto al male; in un agire che non si struttura sul modello del male compiuto e, pertanto, ha una sua intrinseca dimensione di autonomia, cioè di gratuità, dinanzi al male: “tutti hanno peccato…e tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia” (Rom 3,23-24).

Nessuno si libera da solo dal male (Ger 2,22), perché ogni male ha, in certo modo, una dimensione infinita: se hai fatto del male – e chi potrebbe scagliare la prima pietra ? (Gv 8,7) – resti privo dell’innocenza, non ti puoi più autoidentificare col bene. Per uscire da questa condizione devi affidarti, e necessiti di un intervento esterno, di una disponibilità, di unna guancia che è ancora rivolta verso di te (Mt 5,39; Lc 6,29), cioè di un atto di giustizia: è in questo senso che la giustizia di Dio viene definita n sede teologica come giustizia salvifica.

L’aver preso in esame la formula paolina della giustificazione per fede soprattutto dal punto di vista del rapporto di quest’ultima con le opere ha probabilmente favorito una minor attenzione al fatto che tale formula descrive l’attributo prioritario della volontà salvifica di Dio, cioè il suo carattere del tutto incondizionato.

Essa, infatti, non è riferita ai meriti, ma emerge – dinanzi all’abisso del male – attraverso la testimonianza da parte del Figlio di ciò che è radicalmente altro dal male (dell’essere stesso di Dio, che è amore) fino al sacrificio della croce, secondo una logica che apre alla pienezza della vita – la risurrezione – e che, in forza della sua sovrabbondante gratuità, è in grado di risultare salvifica per tutti (Gv 3,17)s; Rom 11,32; 1Tm 2,4) : dunque, una logica di giustizia cui ognuno (senza esclusioni), nonostante la zavorra dei suoi peccati, è chiamato ad aderire e a conformarsi, ottenendo la propria salvezza (una prospettiva –si noti – nient’affatto in contrasto con Gc 2,17, ove viene rimarcata la natura non meramente intellettuale, ma esistenziale della fede, della quale si afferma che, “se non ha le opere, è morta in se stessa”)

“Dio – così il Papa Giovanni Paolo II – non può volere che la salvezza degli esseri da lui creati” e, di conseguenza, la stessa dannazione “non va attribuita all’iniziativa di Dio”: “l’inferno – precisa il Santo Padre – sta ad indicare più che un luogo, la situazione in cui viene a trovarsi chi liberamente e definitivamente si allontana da Dio, sorgente di vita e di gioia” (senza peraltro che ci sia “dato di conoscere se e quali esseri umani vi siano effettivamente coinvolti”)

I frequenti rimandi, talora assai drastici, vetero, ma anche neotestamentari ala dimensione del castigo costituiscono un ammonimento a considerare con serietà l’intrinseca portata di morte del compimento di ciò che è male (“il salario del peccato è la morte”:Rom 6, 23), ma non autorizzano in alcun modo ad agire verso l’altro, che del male sia stato autore, in termini di reciprocità: “guardatevi dal rendere male per male ad alcuno” (1 Ts 5,15),  “non rendete male per male: piuttosto ( è il passo che dà titolo all’ultimo messaggio del Papa Giovanni Paolo II per la giornata della Pace): “non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” ( Rom 12, 17-21)

L’indicazione pratica che ne deriva –non solo nei passi ben noti del Discorso della Montagna – si distacca in modo inequivocabile da prospettive di ritorsione: “qualora uno venga sorpreso in qualche colpa …correggetelo con dolcezza” (Gal 6,1), “non trattatelo come un nemico, ma ammonirtelo come un fratello” (2 Ts 3,15), “portate i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2); già secondo Ez 18,23, del resto, “forse che io ho piacere della morte del malvagio – dice il Signore Dio – o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?”

Non si deve in ogni caso dimenticare, soprattutto rispetto ai passi che nell’Antico Testamento attribuiscono a Dio atteggiamenti di violenza o vendetta e agli stessi passi che richiamano il taglione, come la Bibbia costituisca la storia di una comprensione progressiva e faticosa del rivelarsi di Dio, a quale si realizza in precisi contesti socio-culturali e mettendo in conto la durezza di cuore degli individui coinvolti. Per cui non sorprende, ad esempio, che un filone meno profondo quanto alla percezione dell’essere Dio liberatore – umanamente, ne fa le spese anche Gesù – concepisca quel ruolo in un senso, potremmo dire, politico che dà spazio alla contrapposizione e alla guerra. Anche se, a ben vedere, molte delle narrazioni storiche presenti nella Bibbia appaiono utilizzate come metafore di riflessioni valoriali o messaggi che le trascendono, e perfino il riferimento alle norme mesopotamiche implicanti il taglione è stato inteso, nella più alta tradizione ebraica e pure in quella dell’Islam., non come autorizzazione alla vendetta, ma come affermazione del fatto che l’aver provocato in taluno una deprivazione implica l’assunzione del dovere di surrogare tale carenza con tutte le risorse della propria vita (occhio per occhio)

Quando, comunque, nello stesso Antico Testamento viene approfondita la riflessione sulla giustizia (cedeq) come attributo dell’agire di Dio, significativamente e reiteratamente affiancata ai concetti di bontà e misericordia , emerge la sua caratterizzazione, nel momento stesso in cui obbliga al confronto col male compiuto, per la salvezza  (per la presa di distanze dal male) e non per la condanna: il che, oggi, si rivela di fondamentale interesse anche ai fini del dialogo interculturale e interreligioso.

Giustizia secondo la Bibbia è quindi rimanere fedeli, come Dio (l’unico davvero giusto), al bene dinnanzi al male, provocando con tale disponibilità liberante e salvifica (cfr. Lc 15,11-32) chi ha commesso il male e di conseguenza ne è ferito a una concreta revisione di vita: “ecco, io do la meta dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto” (Lc 19,8); “chi e avvezzo a rubare non rubi più. Anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità” (Ef 4,28)

Non a caso, il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa  così sintetizza il fine che dovrebbe caratterizzare la risposta giuridica ai reati: “da un lato favorire il reinserimento delle persone condannate; da un altro promuovere una giustizia riconciliatrice , capace di restaurare le relazioni di armonica convivenza spezzate dall’atto criminoso” (n.403)

 

 

  1. Colpevolezza e corresponsabilità: sul ruolo della prevenzione primaria   

 

Quanto s’è detto impone un chiarimento, anche ai fini della riflessione sulle strategie preventive, circa il rilievo della responsabilità personale e dei fattori, il cui operare a capo all’intera società, che favoriscono le scelte criminose .

In proposito va considerato come per molto tempo a partire dal secondo Ottocento si sia manifestata, pure in ambito cattolico, una forte diffidenza circa l’intento rieducativi riferito alle sanzioni penali, indotta dal timore di accogliere, insieme ad esso, il determinismo tipico della Scuola Positivista. Quest’ultima, infatti, aveva posto in discussione le dinamiche retributive , proponendo misure volte a intervenire sulle condizioni personali soggiacienti al delinquere: ma ciò era avvenuti, stanti le summenzionate premesse filosofiche , secondo criteriologie tali da non escludere provvedimenti manipolativi della personalità del condannato e la neutralizzazione a oltranza dei reclusi giudicati non recuperabili (il che spiega l’ampia presenza di Istituti ispirati al pensiero del positivismo, non esente lo stesso codice Rocco, nei sistemi giuridici varati da regimi totalitari).

Un contesto, quello descritto, che ha portato assai di frequente a recepire in modo acritico – elevandolo a baluardo ideologico contro la negazione del libero arbitrio – proprio il modello della giustizia retributiva (che dichiara di presupporre la colpevolezza, anche se in pratica ha fatto largo uso della responsabilità oggettiva, vale a dire del ripagare, in base al clichè originario del taglione, la mera causazione materiale di un danno).

Ora, l’immagine dell’individuo quale soggetto morale capace di responsabilità è senza dubbio presupposto cardine del reciproco riconoscimento fra gli esseri umani come titolari di una dignità inalienabile e costituisce , quindi, requisito decisivo onde evitare che l’autore di un fatto illecito possa essere riguardato solo come un mezzo, in rapporto a supposte  esigenze di deterrenza o difesa sociale. Ciò non significa, tuttavia, che, una volta  riconosciuta la capacità di libertà dell’individuo, quest’ultima possa dirsi empiricamente accertabile nel suo esercizio concreto: risultano verificabili, infatti, soltanto i fattori che incidono sulle scelte individuali e che, in un certo senso, fanno da cornice o da limite al manifestarsi della libertà, restando pur sempre priva di una risposta definitiva la domanda su quanto di totalmente suo vi sia stato nella scelta comportamentale di un individuo. Il che, del resto, è ben noto alla riflessione ecclesiale: “solo Dio – afferma la costituzione conciliare Gaudium et Spes (n.28c) – è giudice e scrutatore dei cuori, perciò ci vieta di giudicare la colpevolezza interiore di chiunque”.

Qualsiasi pretesa di soppesare la colpevolezza di una data condotta, per consentire la commisurazione della pena in termini di reciprocità nei suoi confronti, si rivela pertanto, a rigore, insostenibile. Così che il nolite iudicare evangelico (Mt 7,1; Lc 6,37; 1Cor 4,5; ) non costituisce un mero ammonimento religioso, ma l’esito di un’analisi obiettiva della condizione umana, nel cui orizzonte ogni giudizio sul grado della colpevolezza di un comportamento (altrui, ma anche proprio) può solo configurarsi come strutturalmente relativo.

Il rimando al libero arbitrio in ambito penalistico può tuttavia assumere un significato diverso da quello classico, che ne fa il presupposto per inchiodare l’individuo al suo passato (meriti di soffrire, perché hai scelto liberamente di fare il male): si tratterebbe di utilizzarlo, piuttosto, secondo un orientamento al futuro (che riflette il senso stesso della chiamata evangelica alla libertà: Gv 8,32.36; Gal 5,13), evidenziando come sia coessenziale all’umano la capacità di ogni individuo di valutare criticamente gli atti compiuti e, su tali base, di operare scelte nuove per l’avvenire. Se il passato ha conosciuto esperienze negative, che in certo modo sono sempre di non libertà, c’è una libertà da riconquistare , anche con riguardo alla frattura dei rapporti intersoggettivi  che ciò abbia prodotto. Dunque, la vita di chi pure sia giudicato colpevole – così i vescovi francesi in un intervento del 1978 contro la pena di morte, a quel tempo in vigore nel loro paese – “è giocata lungo una durata: se il passato ha conosciuto il delitto, il futuro rimane una possibilità aperta”.

Come anzi più oltre si dirà, la natura di soggetto morale di ciascun individuo umano dovrebbe imporre all’ordinamento giuridico di considerare i destinatari del messaggio normativo e delle stesse sanzioni penali non già come oggetti passivi di una strategia intimidativa o (nel secondo caso) neutralizzativi, tale da assimilare la persona al suo corpo, bensì come soggetti cui il diritto rivolge un appello inteso a motivare verso una scelta per convinzione –cioè libera- di rispetto delle norme e di abbandono delle condotte illecite eventualmente tenute.

Ciò considerato, appare evidente che prendere atto dell’effettiva e rilevantissima esistenza di fattori (culturali, psicologici, sociali, economici) che favoriscono la commissione dei reati e sono oggetto della ricerca criminologia non significa in alcun modo negare la libertà del volere: già, ad esempio, lo aveva evidenziato con grande chiarezza fin dai primi decenni del novecento, alla luce della sua competenza di criminologo, padre Agostino Gemelli. La difesa dell’autonomia individuale, in altre parole, non può condurre a un’immagine semplificatoria  della medesima e del contesto complessivo in cui le condotte umane sono adottate, né tantomeno deve impedire un intervento sanzionatorio che prenda le distanze dalla ritorsione retributiva.

Non a caso, venuti meno gli effetti delle riserve antipositivistiche , il papa Giovanni Paolo II nel messaggio per il Giubileo nelle carceri dichiara: “Siamo ancora lontani dal momento in cui la nostra coscienza potrà essere certa di aver fatto tutto il possibile…per offrire a chi delinque a via di un riscatto e di un nuovo inserimento positivo nella società” (n.5)

Una serie riflessione sul ruolo dei fattori che favoriscono la criminalità e implicano la corresponsabilità sociale corrisponde del resto ai continui ammonimenti neotestamentari che mettono in guardia coloro che, pure, non hanno trasgredito la lettera della legge dal sentirsi giusti: “disse anora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri…” (Lc 18,9); “non c’è nessun giusto, nemmeno uno” (Rom 3,10).

Inoltre, la non rimozione della consapevolezza relativa alla operatività di tali fattori risulta imprescindibile ai fini preventivi: solo una società disponibile a non sentirsi la società dei giusti nel momento in cui riconosce alcuni suoi membri come agenti di reato (che dunque, evita di considerare questi ultimi estranei alla compagine sociale, facendone il capro espiatorio di tutto il male comunque operante al suo interno) sarà infatti capace di accettare gli oneri necessari per incidere su quanto fa da presupposto , incentivo o copertura in favore delle attività illecite, così da ridurne l’incidenza negativa.

Il che apre al capitolo, ampiamente negletto nell’ambito di un approccio troppo spesso superficiale al problema della criminalità, rappresentato dalla prevenzione primaria, di cui possiamo distinguere due profili.

Il primo attiene all’impegno educativo-culturale e politico-sociale. E’ impossibile, infatti, svolgere una credibile azione preventiva dei reati se nel contesto sociale non vengono costantemente argomentate e, dunque, mantenute vive le motivazioni di stili comportamentali entiteci a quelli criminosi, o se ci si attarda a teorizzare, nell’ottica di un esasperato relativismo etico, che nella società pluralistica non sarebbe dato ricercare, proporre o perseguire alcun bene oggettivo: per cui, di conseguenza, non sarebbe legittimamente formulabile alcuna indicazione valoriale della comunità alla coscienza dell’individuo. Una prospettiva, questa , la quale negherebbe ciò che è alla base della società democratica, vale a dire l’impegno teso a riconoscere insieme, sul piano costituzionale, istanze etiche (cioè diritti umani) irrinunciabili, e in tal modo renderebbe davvero problematico reperire il fondamento stesso dei precetti penali, riducendo il reato a una merce particolarmente costosa, il cui prezzo – la pena- deriverebbe da leggi di mercato ricostruibili soltanto nell’ottica di un’indagine sociologica.

Le sollecitazioni ecclesiali intese a contrastare simili tendenze assumono, pertanto, rilievo cardine anche ai fini di un approccio non riduttivo alla politica criminale.

Del pari, lasciare spazio libero, considerando la legislazione e i servizi sociali come una sorta di zavorra improduttiva, ai fattori di disagio economico, psicologico o derivanti dalla multiculturalità, ovvero tollerare inefficienza o scarso senso della legalità da parte delle istituzioni pubbliche, non solo rende più fertile l’humus nel quale possono maturare scelte antigiuridiche, ma, soprattutto, rende poco credibile l’impegno dell’ordinamento in favore della giustizia in senso sostanziale, minandone l’autorevolezza nel momento in cui esige comportamenti secondo giustizia da parte dei singoli individui.

Il secondo livello, senza una separazione netta dal precedente, coinvolge i settori dell’ordinamento giuridico diversi da quello penale, settori dai dipendono assai di più che dal diritto penale gli argini opponibili alla lesione dei beni giuridicamente tutelati. E’ tempo che l’esigenza di limitare le opportunità utilizzabili a fine criminoso nei diversi ambiti dei rapporti sociali ed economici diventi tema centrale e ordinario per qualsivoglia legislazione (civile, economico-finanziaria tributaria, amministrativa, etc), evitando che il problema della prevenzione sia rimosso dalle varie branche del diritto in quanto assegnato a una sorte di competenza separata, tale da non esigere quasi nulla, per fini preventivi, oltre la pena applicabile a posteriori quando si realizzi un fatto offensivo dichiarato illecito dal sistema penale; impostazione, quest’ultima, che ha ampiamente trascurato di sottoporre a verifica la sua stessa capacità di intercettare quote significative delle condotte illecite e in particolare di quelle non marginali.

Così, ad esempio, se si vuole contrastare la criminalità economica occorrerà una seria regolamentazione dei mercati finanziari; se si vuole lottare contro la criminalità organizzata occorrerà occuparsi della trasparenza fiscale, come pure del segreto bancario nei paesi off shore; se non si vogliono i reati sessuali non si potrà eludere la riflessione sui modelli educativi che in tale materia sappiamo proporre; se non si desidera che l’emarginazione sociale generi devianza non si potranno demolire le istituzioni proprie del welfare; tutte esigenze che esigono, in sintesi, la non deresponsabilizzazione sociale verso il problema della criminalità

 

 

  1. Quali esigenze eticamente sostenibili rispetto alla avvenuta commissione di un fatto illecito?

 

Costruire la risposta al reato secondo il modello del negativo che si contrappone al negativo riflette una scelta ben precisa: quella secondo cui la motivazione operata attraverso il diritto – fondamentale nell’ambito di una società democratica e pluralista – al rispetto di prescrizioni intese alla salvaguardia dei beni giuridici di maggior rilievo non possa che fondarsi su strumenti di coazione esterna (per così dire, sulla forza), cioè sul timore di subire un male e sulla incapacitazione fisica. Nell’ottica tuttora  dominante, pertanto, non solo che subisce una condanna, ma anche ciascun individuo destinatario della sollecitazione penalistica a non tenere determinate condotte (prevenzione generale) è riguardato – già lo si osservava – come un corpo da condizionare, piuttosto che come un interlocutore morale chiamato a scelte responsabili.

Non è tuttavia necessaria grande esperienza psico-pedagogica per constatare che le scelte comportamentali solide, vale a dire le scelte di cui necessita una prevenzione stabile, sono quelle compiute per convinzione, cioè aderendo in modo spontaneo ad appelli motivazionali persuasivi.

E in questa prospettiva è logico ammettere –l’esperienza, del resto,  depone in tal senso- che gli ordinamenti più capaci di fare prevenzione  non sono quelli che utilizzano il terrorismo punitivo, bensì quelli maggiormente disposti a far leva, anche attraverso il momento sanzionatorio, sulla ricerca del consenso: considerando i destinatari potenziali o attuali delle sanzioni come destinatari, pur sempre, di un appello al rispetto per scelta personale delle esigenze di tutela democraticamente sancite e, se un reato sia stato commesso, alla presa di distanze dal comportamento criminoso.

Il che rimanda ad alcune parole, la cui importanza non dovrebbe mai essere dimenticata, contenute nell’enciclica Pacem in terris del papa Giovanni XXIII: “L’autorità che si fonda solo o principalmente sulla minaccia o sul timore di pene o sulla promessa e attrattiva di premi non muove efficacemente gli esseri umani all’attuazione del bene comune” (n.28).

Non è un caso, del resto, che il modello penalistico tradizionale da sempre sia esposto a palesi contraddizioni: l’esemplarità delle pene,  ben più facilmente esercitabile verso i devianti più deboli, si rivela, per l’appunto, solo esemplare, lasciando aperte le maglie della c.d. cifra oscura (che indica il tasso, molto elevato, degli illeciti di cui restano ignoti i responsabili ); i reati, specie i reati comuni di maggior gravità, riflettono situazioni assai più complesse di quelle condizionabili agendo sul calcolo delle conseguenze; appare assai poco ragionevole voler motivare al bene esercitando violenza (valga in proposito Beccarla, con riguardo alla pena di morte: voler scongiurare gli omicidi proponendone uno pubblico e ponderato, che delegittima il messaggio normativo circa il rispetto della vita); se la prevenzione si riduce a incutere timore, finisce paradossalmente per essere messa in scacco dal terrorismo suicida, che si fa carico ex ante del massimo dell’intimidazione applicabile; la neutralizzazione non ha mai impedito che le opportunità criminali siano raccolte da altri individui; lamemoria della sofferenza patita in carcere non ha mai ostacolato la recidiva, e così via.

La prevenzione, in effetti, dipende soprattutto dall’autorevolezza dei precetti normativi, cioè dalla capacità dell’ordinamento giuridico di motivare anche attraverso le strategie sanzionatorie a un rispetto per convinzione dei medesimi. In altre parole dipende, soprattutto, dalle componenti positive – per distinguerle dall’approccio intimidativo e neutralizzativi – della prevenzione: che nulla hanno in comune, è bene precisarlo in quanto simile qualifica sovente è stata loro riferita, con le c.d. teorie neo-retributive, le quali riconducono il rispetto delle norme alla supposta esigenza di soddisfare invidiosi bisogni di punizione nei confronti degli agenti di reato, onde per fare sì che continuino a essere psicologicamente repressi – l’esatto contrario della promozione di scelte responsabili – gli impulsi criminosi ritenuti operanti in ciascun individuo.

In un’ottica di prevenzione-consenso, s noti, anche e soprattutto l’orientamento a una (re)integrazione responsabilizzante dell’agente d reato (quale versione positiva della prevenzione speciale), piuttosto che alla sua espulsione dalla società, produce  -sua volta-  prevenzione generale: nulla, infatti, rafforza maggiormente quest’ultima, cioè l’autorevolezza delle norme violate riconfermandone la vigenza, di quanto non possa fare la summenzionata presa di distanze, sulla base di seri impegni riparativi, da una pregressa condotta illegale ad opera dello stesso soggetto capace di scelte libere: una dimensione di efficacia cui mai l’approccio neutralizzativi potrebbe ambire).

Se è vero, del resto, che l’agire antigiuridico, come si evince dall’indagine criminologica, si diffonde ampiamente attraverso meccanismi lato sensu imitativi (si tende a fare ciò che è stimato nel gruppo in cui ci si riconosce e si è riconosciuti, e che consente di assumere in esso una posizione di maggior rilievo), appare evidente il significato preventivo che può rivestire in contesti a rischio, minando il credito di cui godano certe scelte criminose, l’aver saputo conseguire – stando alla terminologia in parte datata di cui all’art. 27 Cost. – la rieducazione del condannato.

Lavorare, dunque, in quest’ultima prospettiva non rappresenta un di più che possiamo concederci per mere ragioni umanitarie e contro l’interesse sociale a una prevenzione efficace, ma costituisce conditio sine qua non per una prevenzione (speciale, ma anche generale) credibile.

Quanto s’è detto non significa –è ovvio- che l’attivazione del diritto a seguito di un reato e la previsione di sanzioni non rivestano anche un ruolo dissuasivo: ma simile ruolo va riferito essenzialmente alla circostanza che l’eccertamento dei fatti di reato si realizzi, che il reato non paghi, che ne derivino, comunque, conseguenze  impegnative e non esige, pertanto, che il contenuto della risposta sanzionatoria  riproduca la negatività dell’illecito commesso.

In questo senso, trovano giustificazione razionale e morale, insieme all’impegno per ottenere una seria presa di distanze dell’agente di reato dalle condotte antigiuridiche, l’intervento –assai trascurato nel diritto penale classico- sui benefici materiali derivanti dall’agire criminoso e sui patrimoni illecitamente costituiti, nonché il contrasto mediante sanzioni aventi rilievo economico delle scelte antigiuridiche motivate da finalità lucrative (anche incidendo sull’interesse dei beneficiari indiretti di attività illecite che non si siano attivati al fine di impedirle, secondo quanto accade, ad esempio, mediante la responsabilità per reato delle persone giuridiche).

D’altra parte, proprio l’aver inteso la pena come un’applicazione retributiva di sofferenza attraverso il ricorso pressocchè egemone alla detenzione (essendo essa assai duttile sotto il profilo commisurativi) ha prodotto lo status quo di un sistema penale che colpisce con durezza gli svantaggiati sociali e non contrasta in modo efficace le condotte illecite pianificate per motivi di profitto in ambito economico, spesso con danno o rischio grave di beni del massimo rilievo.

Ne deriva, in particolare, l’esigenza di prendere commiato dall’assunto secondo cui competerebbe alla pena esprimere rendendolo immediatamente percepibile – mediante la durata della detenzione inflitta – il giudizio sulla gravità dell’illecito commesso: assunto in forza del quale il non ricorso alle pene più severe finisce facilmente per essere percepito come indice di debolezza delle Istituzioni nel riconoscere l’obiettivo disvalore di determinate condotte, col pericolo di una corsa al rialzo delle sanzioni edittali ogni volta che per una certa tipologia di reati si produca, in modo più o meno legittimo, allarme sociale.

Manifestare l’antisocialità di una determinata condotta sottraendola al nascondimento è compito, piuttosto, del processo, e nulla vieta che il giudizio sulla gravità dell’accaduto possa trovare un’espressione verbale sintetica, che oggi manca, nello stesso dispositivo della sentenza di condanna, il quale si limita attualmente, per l’appunto, alla commisurazione della pena.

La risposta giuridica al reato, sena dubbio, deve essere coerente col fatto posto in essere, ma non nel senso secondo cui sarebbe chiamata a riprodurne,  per analogia, la negatività, bensì rendendosi espressiva, nei contenuti, del valore dei beni offesi in concreto (ad esempio, mediante prestazioni riparative, percorsi riabilitativi, procedure orientate alla mediazione con la vittima): ovviamente, entro limiti garantistici fissati dal legislatore, da riferirsi alle diverse tipologie di illeciti nonché alle diverse possibili situazioni soggettive degli autori, sulla base di una strategia preventiva orientata non alla espulsione, ma alla reintegrazione sociale del condannato.

E’ il proprio della scelta di fondo in favore della strategia or ora richiamata  -e non dalla proporzionalità retributiva, come a legittimazione di quest’ultima tradizionalmente si è sostenuto- che dipende, del resto, la salvaguardia della dignità di chi pure abbia trasgredito la legge, rispetto ai poteri statuali.

Da un lato, infatti, il criterio di corrispondenza fra illecito e pena resta, nell’ottica retributiva, del tutto aleatorio sia con riguardo ai contenuti che al rapporto di proporzionalità e, dunque, non in grado d assumere alcuna funzione limitatrice, rendendosi anzi disponibile, per tali sue caratteristiche, a recepire in modo acritico istanze di reazione alla criminalità puramente emotive; dall’altro lato, la formalizzazione del punire secondo lo schema retributivo risponde solo in apparenza a criteri di garanzia e imparzialità, avendo come prezzo il ricorso generalizzato alla modalità sanzionatoria, il carcere, maggiormente in grado di comprimere l’esercizio in concreto dei diritti umani garantiti dalla Costituzione e di ridurre all’illecito commesso l’intera vicenda umana del suo autore, così da renderlo mero oggetto passivo della condanna.

Di certo, quindi, non può essere condiviso il perdurare del ruolo cardine finora assegnato dal diritto penale al carcere, vuoi in quanto espressione della prassi retributiva, la quale esige, come s’è detto, una modalità omogenea e facilmente quantificabile onde materializzare il negativo (la sofferenza) che intende contrapporre al negativo del reato, vuoi in quanto istituzione cui s’è ritenuto di poter attribuire – in parallelo con vecchie concezioni del ricovero ospedaliero e secondo una nozione di trattamento non priva di reminiscenze positivistiche – il compito, contraddittorio, di conseguire effetti risocializzativi senza modificare, nella sostanza, l’impostazione del punire.

Si tratta di conclusioni circa l’esigenza di superare la centralità del carcere che, ancora una volta, risultano nitidamente espresse in un documento di rilievo soprannazionale  qual è il messaggio del papa Giovanni Paolo II per il Giubileo nelle carceri: “I dati che sono sotto gli occhi di tutti ci dicono che questa forma punitiva in genere riesce solo in parte a far fronte al fenomeno della delinquenza. Anzi, in vari casi i problemi che crea sono maggiori di quelli che tenta di risolvere. Ciò impone un ripensamento in vista di una qualche revisione” (n.5). Testo, quest’ultimo, il quale fa dunque propria la prospettiva di un ricorso alla detenzione in termini di rigorosa sussidiarietà, con parallela introduzione di sanzioni penali, applicabili già nel momento della condanna, di carattere non detentivo.

Nel medesimo senso, prosegue il Santo Padre, “quegli Stati e quei Governi che abbiano in corso o intendano intraprendere revisioni del loro sistema carcerario, per adeguarlo maggiormente alle esigenze della persona umana, meritano di essere incoraggiati a continuare in un’opera tanto importante, prevedendo anche un maggior ricorso alle pene non detentive” (n.7).  

 

      

5. La posizione della vittima

 

Il messaggio della Scrittura verso chi abbia subito ingiustizie costituisce un invito pressante a non raccogliere la seduzione del male. Paolo ad esempio, dopo aver ammonito a non rendere male per male, concretizza in maniera in equivoca le sue parole: “cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini” (Rom 12,17); mentre Pietro precisa : “rispondete benedicendo”” (1Pt 3,9), riecheggiando Lc 7,26 “fate del bene a coloro che vi odiano” e Mt 5,44 “pregate per i vostri persecutori”.

Ciò non introduce una sorte di prescrizione più o meno eroica o masochistica volta ad acquisire meriti religiosi, bensì presuppone una lettura di quanto corrisponde alle vere esigenze della vittima, nel convincimento che esse non siano rappresentate dal bisogno di rivalsa o vendetta.

Secondo la Scrittura, è chi commette il male che, in realtà, ne risulta ferito, venendo a trovarsi in una condizione di fallimento della sua vita, mentre per la vittima sussiste, semmai, il rischio di rimanere schiacciata e abbandonata, in forza dell’altrui indifferenza , nel suo dolore:un’indifferenza che trova copertura proprio attraverso l’offerta alla parte offesa di procedure, idonee a esimere da atteggiamenti di solidarietà autentica, fondate sulla ritorsione giuridica del negativo subito, le quali finiscono per avvinghiare la vittima stessa alla logica del male e per rinchiuderla nella sua afflizione, esacerbandone il dolore.

Nel sistema penale tradizionale, in effetti, quanto si concede alla vittima per superare la frattura rappresentata dal reato è l’entità della pena che di quella frattura, simbolicamente esprimerebbe il disvalore: così che, in assenza di strade diverse, la vittima viene indotta a collegare il grado di riconoscimento delle sue ragioni e dell’intrinseca inaccettabilità di una certa condotta alla maggiore o minore durezza in sé delle conseguenze sanzionatorie.

Ma la vittima non necessita di tale meccanismo sanzionatorio: necessita, per l’appunto, di poter affermare con forza, acquisendo chiarezza sui fatti e sulle responsabilità, che quanto accaduto non doveva, e non dovrà più accadere; se si vuole, necessita –parafrasando Hegel– di poter affermare con forza che quanto accaduto, se pure è stato reale, non è affatto razionale  e ha costituito, piuttosto, una prevaricazione.

Simili esigenze attengono, in primo luogo, al fatto che le condotte illecite non restino occulte, ma siano riconosciute pubblicamente (secondo le caratteristiche e la gravità di ciascun singolo caso) quale indebita violazione di diritti altrui,  come conseguenze antitetiche all’intento criminoso, in termini di riparazione o di prescrizioni orientate a promuovere il rispetto dei beni aggrediti.

Essenzialmente, si tratta di riaffermare dinanzi alla trasgressione di una norma la vigenza della legge, qualificando come inaccettabile quanto concretamente accaduto e facendone paradigma di riferimento affinché qualcosa di simile non torni a verificarsi in futuro.

Ora, nei in cui le esigenze summenzionate hanno trovato risposta al di fuori della dinamica retributiva, ciò ha ottenuto un apprezzamento da parte delle vittime per i più inatteso come attestano, in ambito minorile, i risultati delle procedure di mediazione penale; e non possono essere dimenticate, comunque , le frequenti dimostrazioni di un atteggiamento non vendicativo offerte da persone o familiari di persone colpite da gravi reati.

In particolare, il bisogno della vittima di vedere riconosciute le sue ragioni e ribadita la validità delle regole infrante con la condotta criminosa trova la sua massima realizzazione proprio nel caso in cui ciò si realizzi anche attraverso il suo stesso coinvolgimento personale, come può avvenire nell’ambito di procedure conciliative o comunque finalizzate alla composizione del conflitto.

Se ne rende interprete, pure in questo caso, il papa Giovanni Paolo II, riflettendo, nell’omelia rivolta il 9 luglio dell’anno 2000 ai detenuti del carcere di Regina Coeli, sul rinnovamento di vita del condannato e sulla prospettiva del suo positivo reinserimento nel contesto civile: “Di questo vostro cammino non potrà che gioire l’intera società. Le stesse persone a cui avete cagionato dolore sentiranno forse di aver avuto giustizia più guardando al vostro cambiamento interiore che al semplice scotto penale da voi pagato” (n.6).

 

 

6. Il perdono come dimensione della giustizia

 

Sulla base di queste considerazioni, il contributo di maggior rilievo teorico del magistero ecclesiale, non solo con riguardo agli ultimi anni , circa la materia in esame appare fondatamente da ravvisarsi nell’individuazione del perdono – di cui al messaggio del papa Giovanni Paolo II per la giornata Mondiale della Pace 2002 – quale caratteristica coessenziale (e non quale alternativa tanto elevata, quanto inincidente dal punto di vista dello Stato) alla giustizia: “il perdono va contro l’istinto spontaneo di ripagare il male con il male…nella misura in cui si affermano un’etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una ‘politica del perdono espressa in atteggiamenti sociali e in istituti giuridici nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano”

Ripagare il male col male non rientra dunque, secondo il papa, in una logica di giustizia, ma è considerato un istinto, mentre si dichiara che una giustizia da volto umano è chiamata a trarre ispirazione da un’etica  e da una cultura del perdono; di conseguenza viene asserita, e insieme auspicata, la capacità del riferimento al perdono di tradursi in istituti giuridici. Approdo, quest’ultimo, di grande rilievo, perché supera la tendenza classica a confinare la categoria del perdono entro l’ambito dei rapporti privati, cioè in un contesto slegato dal corso della giustizia o riferito alle ipotesi in cui deliberatamente, ove possibile, si scelga di non attivare l’intervento giudiziario.

Il perdono, in effetti,  non è passività: la sua frequente lettura in questo senso dipende dall’assimilazione della giustizia allo schema, indiscusso per secoli, della bilancia, così che la proposta di rinunciare, perdonando, a quello schema è ancor oggi comprensibile, per molti, solo nei termini della rinuncia alla giustizia tout court e, dunque, solo nei termini di un’inerzia consequenziale di fronte alle prevaricazioni.

Il perdono implica, piuttosto, che nella risposta alle condotte offensive non s’intenda riprodurre verso chi ha sbagliato il male da lui compiuto e che, pertanto, si resti interessati a che egli ritrovi se stesso o, in altre parole, al suo cambiamento di vita: implica, dunque, che tutto ciò costituisca elemento ineludibile dell’agire secondo giustizia dinanzi alla fragilità rappresentata dall’errore.

In questo senso, la componente del perdono manifesta l’intrinseca dimensione dialogica e di apertura al futuro che dovrebbe caratterizzare la giustizia : non come realtà che ratifica, dando loro forma giuridica, le fratture di cui ci rendiamo responsabili nei rapporti intersoggettivi e che modella il criterio del suo realizzarsi sul male compiuto, ma come opportunità per ricucire e per riaffermare, anche attraverso il  contenuto dei provvedimenti sanzionatori, i valori social,mente rilevanti negati dai comportamenti illegali.

Valgano, in proposito, le considerazioni svolte dal papa Giovanni Paolo II sulla giustizia riconciliativi nel messaggio Mondiale della Pace 1997, aventi per oggetto specifico il superamento di guerre etniche o civili segnate da gravissimi delitti, ma che non si vede come potrebbero non valere, a fortori, con riguardo alla criminalità ordinaria (viene citata, in particolare, l’esperienza delle commissioni Verità e riconciliazione che hanno favorito il passaggio non cruento alla democrazia in Sudafrica): “la giustizia non si limita a stabilire ciò che è retto tra le parti in conflitto, ma mira soprattutto a ripristinare relazioni autentiche con Dio, con se stessi, con gli altri. Non sussiste, pertanto, alcuna contraddizione fra perdono e giustizia. Il perdono, infatti, non elimina ne diminuisce l’esigenza della riparazione, che è propria della giustizia, ma punta a reintegrare sia le persone e i gruppi nella società, sia gli Stati nella Comunità delle Nazioni. Nessuna punizione può mortificare l’inalienabile dignità di chi ha compiuto il male. La porta verso il pentimento e la riabilitazione deve restare sempre aperta”. (n.5)

Nella medesima ottica sono da considerarsi i costanti appelli del papa Giovanni Paolo II contro l’esecuzione di condanne capitali e la stessa richiesta giubilare di un segno di clemenza a vantaggio di tutti i detenuti quale “chiara manifestazione di sensibilità, che non mancherebbe di stimolarne l’impegno di personale recupero in vista  d un positivo reinserimento nella società”, richiesta ribadita il 14 novembre 2002 davanti al Parlamento italiano:  ciò “costituirebbe anche un segno eloquente del progressivo affermarsi nel mondo di una giustizia più vera, perché aperta alla forza liberatrice dell’amore”.

Il che lascia percepire come un’occasione perduta la deliberazione dell’indulto, cui si è pervenuti solo nell’estate 2006 nei termini di un’iniziativa necessitata dalle insostenibili condizioni dell’affollamento penitenziario, piuttosto che ne quadro di un dialogo instaurato all’interno della comunità civile e con gli stessi detenuti sul significato del loro recupero alla vita sociale, così che l’atto di clemenza potesse assumere, come proposto dal Papa, i contorni di un0’apertura di fiducia e, per converso, di un fattore responsabilizzante.

 

 

 

7. La necessità di riformare il sistema sanzionatorio, nel quadro di un indirizzo riparativo e riconciliativi della giustizia che si opponga a intenti di esclusione sociale. 

 

 L’istanza pratica più importante che la riflessione condotta sulla base del messaggio cristiano può proporre, oggi, nei confronti dello Stato in materia di giustizia penale appare, dunque, quella rivolta a un completo rinnovamento degli strumenti sanzionatori, non disgiunto da un’analisi coraggiosa dei processi selettivi finora determinatisi sia per quanto concerne i reati che i tipi di autore cui s’è applicata, di fatto, la sanzione detentiva: processi i quali rendono palese come il ricorso al carcere abbia costituito, in ampia misura, mezzi d’intervento e di controllo sui settori più deboli dell’emarginazione sociale.

Va del resto rammentato –lo afferma, ancora, il messaggio per il Giubileo nelle carceri – che  “anche nei casi in cui la legislazione  (penitenziaria) è soddisfacente “, “talvolta il carcere diventa un luogo di violenza assimilabile a quegli ambienti dai quali i detenuti non di rado provengono”, il che “vanifica, com’è evidente, ogni intento educativo delle misure detentive” (n. 6)

Risulta, in particolare, del tutto inaccettabile che la detenzione sia intesa quale modalità punitiva ordinaria del reato cioè tale da giustificarsi per il solo fatto che a un illecito sia attribuita natura penale. L’uso del carcere, piuttosto, necessita –anche per ragioni morali- di motivazioni specifiche, che sono da rapportarsi, essenzialmente, all’eventuale sussistere di un rischio inteso della reiterazione in libertà di crimini gravi: senza che ciò, comunque, possa far venie meno lo scopo risocializzativo.

Soprattutto, va richiesto che las persona condannata torni ad essere protagonista, e non solo soggetto passivo, della vicenda sanzionatoria (pure con riguardo al contesto concreto dei rapporti sui quali il reato abbia inciso.

Ciò fa ritenere  necessario uno spostamento radicale di risorse – economiche ma anche culturali- dall’ambito della detenzione a quello delle sanzioni non detentive: che in sé sono di gran lunga meno onerose del carcere del ricorso al carcere, ma vengono sovente presentate come un costo aggiuntivo (invece che alternativo),  non indispensabile proprio perché si ritiene scontato, e vantaggioso politicamente,l’investimento pesantissimo sul sistema penitenziario. Così che, mentre si trovano le risorse per costruire nuove carceri e si considera naturale che il rapporto fra l’organico della polizia penitenziaria e il numero dei detenuti sia all’incirca, in Italia, in Italia , di tre a quattro, le attività di recupero e la c,t,esecuzione esterna coinvolgono un numero di addetti tale da definirlo estremamente esiguo costituirebbe solo un eufemismo.

A fianco dei provvedimenti già richiamati volti a incidere sugli interessi economici, col fine di contrastare le condotte criminose pianificate per ragioni di lucro nell’ambito delle attività  commerciali o finanziare, l’intervento penale non detentivo dovrebbe comprendere in primo luogo sanzioni-prestazione consistenti, piuttosto che in un subire, in un fare, secondo un indirizzo dialogico circa il rapporto dell’agente di reato con l’ordinamento giuridico e conciliativo circa il rapporto del medesimo con la  vittima : indirizzo che potrebbe incidere, ferma la prova rigorosa dei fatti, già sulle modalità del processo (per esempio attraverso forme di definizione anticipata del medesimo).

In questo senso, l’ottica conciliativa orienta a non separare, dinanzi alla commissione del reati, esigenze preventive che si considerino proprie dello Stato, o del diritto in sé, dalle esigenze delle vittime, dirette o indirette: evitando che le sanzioni, in quanto le si pensi come dovute a un ordinamento giuridico astratto e impersonale, risultino disinteressate alle relazioni umane sulle quali il reato abbia inciso.

Andrebbe dunque privilegiata l’attitudine della risposta al reato a manifestarsi significativa dal punto di vista delle  condizioni personali  del soggetto agente, a ricucire i rapporti intersoggettivi nei cui confronti il reato, abbia rappresentato una frattura, a confermare la capacità della legge di fungere, malgrado il reato, da fattore motivante all’osservanza delle norme trasgredite (cioè a confermare la sua autorevolezza).

Sono individuabili alcune modalità principali che, su questa via, l’intervento sanzionatorio potrebbe assumere, modalità fra loro non esclusive e, pertanto, reciprocamente integrabili:

-         percorsi riabilitativi che abbiano riguardo a condizioni personali del soggetto agente, da attuarsi attraverso forme di serio affidamento ai servizi sociali giudiziari o anche a strutture del volontariato sociale (purché in assenza di obblighi consistenti nella coercizione della libertà): si ratta di uno strumento che, a uno sguardo realistico, appare indispensabile proprio per quanto concerne la fascia socialmente più debole  dell’attuale popolazione penitenziaria;

-         procedure riparative di carattere tendenzialmente non pecuniario –le quali dunque non coincidano col risarcimento civilistico del danno e tengano conto della condizione personale del soggetto interessato –orientate al recupero di sensibilità solidaristiche ed espressive del valore dei beni offesi in concreto;

-         partecipazione positiva a iter di mediazione penale, intesi a coinvolgere lo stesso agente di reato, una volta accertati i fatti e la colpevolezza, nel riconoscimento in rapporto con la vittima (o con soggetti esponenziali  degli interessi offesi) del disvalore di quanto accduto, anche attraverso la proposta, da parte dell’agente medesimo, di specifiche prestazioni orientate alla composizione del conflitto: posto che la mediazione non avviene alla presenza del giudice e quanto emerge nel corso di essa non può essere usato contro l’imputato, simile strumento torna a rendere possibile un dialogo sincero tra le parti circa gli eventi verificatesi, privilegiando l’emergere e la connessa elaborazione della verità rispetto all’intento di punire, in un clima di pura contrapposizione, con sanzioni retributive (si noti, inoltre, come la mediazione  -che si colloca nel solco, promosso dalle organizzazioni internazionali, della c.d. restorative justice e ha trovato significative esperienze italiane, già lo accennavamo, nell’ambito della giustizia penale minorile – risulti per sé applicabile a qualsiasi reato e possa essere considerata rilevante dal giudice ai fini di una definizione complessiva delle conseguenze sanzionatorie anche nei casi in cui non si ritenga possibile limitare tali conseguenze al solo esito positivo della medesima);

-         prestazioni di utilità sociale, non nella forma di imposizioni odiose secondo tristi esperienze del passato, ma nel quadro di un orientamento inteso a promuovere il senso di responsabilità verso i beni che siano stati offesi;

-         sanzioni pecuniarie per tassi (tali da consentire l’adeguamento alla situazione economico-sociale del condannato), esse pure volte a concretizzare un impegno responsabilizzante in favore dei beni sui quali il reato abbia inciso o, comunque, in favore di attività di rilievo sociale promosse dalle istituzioni pubbliche.

Resta certamente, altresì, l’ambito delle pene privative o limitative di diritti, secondo modalità –soprattutto di natura interdittiva- meno onerose rispetto alla detenzione:  sarebbe tuttavia opportuno che il ricorso a simili misure possa pur sempre collocarsi in un contesto di provvedimenti percepibile non come puro e semplice presupposto di un’incapacitazione mirata, bensì come stimolo a una condotta responsabile verso esigenze fondamentali della convivenza civile.

In particolare, si configurerebbe riduttivo circoscrivere la riforma delle pene c.d. principali applicabili nella sentenza di condanna come si evince da alcune proposte, all’introduzione della detenzione domiciliare, per quanto essa risulti certamente più mite del ricorso al carcere – ma tutt’altro che indolore dal punto di vista psicologico – e sia comunque da preferirsi a quest’ultimo ove non ostino ragioni insuperabili.

Il rischio, infatti, è che una simile scelta finisca per essere motivata da mere ragioni contingenti di contenimento dei costi per lo Stato, vale a dire in un’ottica di deflazione della popolazione penitenziaria cui non corrisponda l’intento effettivo di superare la logica corrente del punire e, con essa, la centralità del ricorsola carcere, specie con riguardo ai detenuti più poveri e soli, che neppure potrebbero garantire la disponibilità di un domicilio idoneo all’esecuzione esterna della pena.

Alla luce delle esigenze di riforma summenzionate dovrebbe essere profondamente rivista, in ogni caso, la funzione assegnata al giudice nel momento  della condanna, così che egli possa svolgere un compito diverso, e più pregnante sotto il profilo umano, da quello ragionieristico misurante a esprimere in mesi e anni di reclusione la gravità attribuita   all’illecito: assumendo, piuttosto, un ruolo costruttivo sia rispetto al percorso sanzionatorio del condannato, sia, per quanto possibile , con riguardo alla composizione del rapporto con la vittima.

Ciò implica, soprattutto, la necessita di tornare ad approfondire il nodo della discrezionalità giudiziaria, non certo nell’ottica di un’autorizzazione all’arbitrio (il cui spazio è ben maggiore per altro, quando si chiede al giudice di individuare un’inesistente livello della sanzione che corrisponda in sé alle caratteristiche del reato), bensì nella prospettiva di un’applicazione adeguatrice al caso concreto delle linee guida fissate dal legislatore – con riguardo alle diverse tipologie di reato e ai contesti soggettivi in cui i fatti possano realizzarsi – secondo una progettazione preventiva orientata, nel senso precedentemente illustrato, al consenso e all’integrazione sociale.

Una particolare attenzione andrebbe dedicata, inoltre, agli individui giudicati pericolosi che abbiano realizzato una fattispecie criminosa trovandosi in stato di non imputabilità, specie per motivi di carattere psichico. Tali individui, infatti, vengono oggi sottoposti a c.d. misure di sicurezza, non determinate a priori nella durata massima e aventi pur sempre natura e disciplina di carattere giudiziario: misure  (espressamente ispirate ai principi del positivismo) le quali non hanno di certo corrisposto seriamente al dichiarato intento terapeutico e, nella forma più drastica dell’ospedale psichiatrico giudiziario, non si sono realmente differenziate, se non nel passato in peggio dalla pena detentiva.

Appare infatti ragionevole oltre che rispondente a una visione non solo formalistica del principio costituzionale di colpevolezza (art. 27 Cost.), che tali persone possano essere seguite dai servizi socio-sanitari, eventualmente con prescrizioni e controlli dell’autorità giudiziaria intesi a contrastare eventuali pericoli concreti che possano effettivamente derivare dalle loro condotte (nonché a evitare indebiti dinieghi del giudizio di non imputabilità, riconducibili a istanze emotive di penalizzazione da parte dell’opinione pubblica)

Quanto sin qui s’è detto necessita poi, ovviamente, di raccordi con la teoria del reato e, in particolare, con le modalità stesse di costruzione delle fattispecie: è irrazionale, per esempio, che a parità di condotte antigiuridiche implicanti il medesimo rischio si colpisca molto più duramente (spesso, anzi, esclusivamente) – secondo l’inveterata vocazione oggettivizzante dell’idea di reciprocità – quella più sfortunata seguita dalla effettiva realizzazione dell’evento lesivo temuto, quando invece sarebbe più logico e proficuo un controllo serio di tutte le condotte rischiose, senza ricorso alla pena detentiva, e un rilievo delle eventuali conseguenza lesive non volute sul piano, per esempio, delle prestazioni riparatorie.

Infine, dovrebbe essere valutato con cura quali fra gli illeciti cui siano applicabili solo sanzioni non detentive debbano rimanere affidati alla competenza dell’autorità giudiziaria, dati i suoi specifici poteri e la peculiare tutela costituzionale della sua autonomia, e quali, invece, possano essere depenalizzati, con trasferimento delle competenze all’autorità amministrativa.

 

 

8. Profili di una giustizia più feconda e più umana

 

Forse come nessun’altro, il tema costituito dalle scelte da compiersi nei confronti dell’autore di un reato rinvia al quesito che interpella più in profondità l’essere umano nella sua vicenda esistenziale: in che modo agire dinanzi al negativo (e dunque al dolore, all’ingiustizia ), per quali ragioni perseguire il bene in un mondo che conosce l’iniqua distribuzione del soffrire, la sopraffazione, la morte?

Il sistema penale costituisce davvero – secondo un’affermazione più volte ripetuta – elemento sintomatico del livello di civiltà di un popolo proprio perché dice non poco, senza infingimenti, di come i membri di una comunità civile si prefiggano di affrontare le sfide decisive della vita privata e di quella pubblica, ed è per questo che diviene paradigma significativo dei criteri con cui vengono gestiti i problemi inerenti ai rapporti fra le persone, ma anche ai rapporti politici, economici, internazionali.

Per gli stessi motivi, il diritto penale interpella con singolare intensità la stessa comunità ecclesiale, mettendo a nudo se finisce per proporre il fattore religioso come supporto culturale moralistico ed equivoco affinché l’agire contro l’altro possa essere giustificato nei termini di un ineccepibile castigo oppure se è disposta a credere che il messaggio biblico sostenga ciascun individuo nel ritenere che dinanzi al male sia realizzante e sensato testimoniare – non diversamente da Gesù – la fecondità del bene (e altresì, che non ci si debba ritenere giusti, così da saper intervenire sui presupposti lontani dalla scelte sbagliate, ovvero, ancora , che i fini perseguiti non possano giustificare mezzi in contrasto con la dignità umana)

In radice, ciò lascia emergere l’alternativa tra le due concezioni antitetiche della giustizia.

Da un lato quella formale rappresentata dalla bilancia, che esige di giudicare l’altro (com’è assai radicato nella nostra cultura) per sapere in che modo agire verso di lui, ma che proprio per questo –inducendo a giudicare l’altro prima di averlo riconosciuto nella sua dignità di persona  e di aver stabilito una relazione con lui – consente sempre di reperire nell’altro qualcosa di negativo, sia esso colpevole o incolpevole, che possa avallare l’agire negativo nei suoi confronti. Il che fa da presupposto a infiniti atteggiamenti di ostracismo e di non accoglienza tipici del nostro tempo: sul piano sociale, nei rapporti con i popoli più poveri, nelle relazioni interculturali, nell’ambito delle stesse condotte aventi rilievo per la bioetica.

Dall’altro, viene in considerazione un modello della giustizia che abbandona l’idea di reciprocità per orientare ad agire, pur sempre avendo il coraggio morale del primo passo, secondo la dignità di tutti i soggetti coinvolti, vale a dire secondo ciò che possa costituire, in ogni circostanza, il loro bene: in tal senso mirando a ricucire rapporti e a risanare ferite.

E’ quella che la teologia biblica (gia lo ricordavamo)  indica come giustizia salvifica e che la dottrina giuridica laica riconduce al ruolo fondamentale dei diritti umani, i quali richiedono che s muova, nelle relazioni intersoggettive, non da un giudizio sull’altro, che ne potrebbe rappresentare la negazione, ma –in quanto cardine della democrazia- dal riconoscimento dell’altro per il fatto stesso della sua esistenza, che impone a ciascuno di agire conformemente alla sua dignità.

Poiché Dio “ci ha riconciliati con sé mediante Cristo”, “ha affidato a noi il ministero della riconciliazione” (2 Cor 5,18)

 

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