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Messaggio del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II per il Giubileo delle Carceri
Il Risorto entri nelle carceri 1. Nel contesto di questo anno santo del 2000, non poteva mancare la giornata del Giubileo nelle carceri. Le porte degli Istituti di detenzione non possono infatti escludere dai benefici di quest'evento coloro che si trovano a dover trascorrere parte della vita al loro interno. Pensando a questi fratelli e sorelle, la mia prima parola è l'augurio che il Risorto, il quale entrò a porte chiuse nel Cenacolo, possa entrare in tutte le carceri del mondo e trovare accoglienza nei cuori, apportando a tutti pace e serenità. Com'è noto, nel presente Giubileo la Chiesa celebra in modo speciale il mistero dell'incarnazione di nostro Signore Gesú Cristo. Sono, infatti, trascorsi due millenni da quando il Figlio di Dio si fece uomo e venne ad abitare in mezzo a noi. Oggi, come allora, la salvezza portata da Cristo ci viene nuovamente offerta, perchè produca abbondanti frutti di bene secondo il disegno di Dio, che vuole salvare tutti i suoi figli, specialmente coloro che, essendosi allontanati da Lui, sono in cerca della strada del ritorno. Il Buon Pastore esce continuamente sulle tracce delle pecorelle smarrite e, quando le incontra, se le prende sulle spalle e le riporta all'ovile. Cristo cerca l'incontro con ogni essere umano, in qualsiasi situazione si trovi!
La salvezza che viene proposta non imposta 2. Obiettivo dell'incontro di Gesú con l'uomo è la sua salvezza. Una salvezza, peraltro, che viene proposta, non imposta. Cristo attende dall'uomo una fiduciosa accettazione, che ne apra la mente a decisioni generose, atte a rimediare il male fatto e a promuovere il bene. Si tratta di un cammino a volte lungo, ma certamente stimolante, perchè non compiuto da soli, ma con la compagnia ed il sostegno dello stesso Cristo. Gesú è un compagno di viaggio paziente, che sa rispettare i tempi e i ritmi del cuore umano, anche se non si stanca di incoraggiare ciascuno nel cammino verso la meta della salvezza. La stessa esperienza giubilare è strettamente collegata alla vicenda umana del trascorrere del tempo, a cui essa vuol dare un senso: da un lato, il Giubileo intende aiutarci a vivere il ricordo del passato facendo tesoro di tutte le esperienze vissute; dall'altro ci apre al futuro nel quale l'impegno dell'uomo e la grazia di Dio debbono tessere insieme ciò che resta da vivere. Chi si trova in carcere, pensa con rimpianto o con rimorso ai giorni in cui era libero, e subisce con pesantezza un tempo presente che non sembra passare mai. All'umana esigenza di raggiungere un equilibrio interiore anche in questa situazione difficile può recare un aiuto determinante una forte esperienza di fede. Qui sta uno dei motivi del valore del Giubileo nelle carceri: l'esperienza giubilare vissuta tra le sbarre può condurre a insperati orizzonti umani e spirituali.
Il tempo è di Dio anche quello della detenzione 3. Il Giubileo ci ricorda che il tempo è di Dio. Non sfugge a questa signoria di Dio anche il tempo della detenzione. I pubblici poteri che, in adempimento di una disposizione di legge, privano della libertà personale un essere umano ponendo quasi tra parentesi un periodo più o meno lungo della sua esistenza, devono sapere di non essere signori del tempo del detenuto. Allo stesso modo, chi si trova nella detenzione non deve vivere come se il tempo del carcere gli fosse irrimediabilmente sottratto: anche il tempo trascorso in carcere è tempo di Dio e come tale va vissuto; è tempo che va offerto a Dio come occasione di verità, di umiltà, di espiazione ed anche di fede. Il Giubileo è un modo per ricordarci che non solo il tempo è di Dio, ma che i moment in cui sappiamo ricapitolare tutto in Cristo diventano per noi "un anno di grazia del Signore". Durante il periodo del Giubileo, ciascuno è chiamato a registrare il tempo del proprio cuore, unico e irripetibile, sul tempo del cuore misericordioso di Dio, sempre pronto ad accompagnare ciascuno, al suo passo, verso la salvezza. Anche se la condizione carceraria, a volte, rischia di spersonalizzare l'individuo, privandolo di tante possibilità di esprimere pubblicamente se stesso, egli deve ricordare che non è così davanti a Dio: il Giubileo è il tempo della persona, in cui ciascuno è se stesso davanti a Dio, a immagine e somiglianza di Lui. E ciascuno è chiamato ad accelerare il suo passo verso la salvezza ed a progredire nella graduale scoperta della verità su se stesso.
Il Giubileo: un'occasione da non perdere 4. Il Giubileo non vuole lasciare le cose come stanno. L'anno giubilare del Vecchio Testamento doveva "restituire l'uguaglianza tra tutti i figli d'Israele, schiudendo nuove possibilità alle famiglie che avevano perso le loro proprietà e perfino la libertà personale" (Lett.ap. Tertio millennio adveniente, 13). La prospettiva che i Giubileo apre davanti a ciascuno è, quindi, un'occasione da non perdere. Occorre profittare dell'Anno Santo per provvedere a sanare eventuali ingiustizie, per lenire qualche eccesso, per recuperare ciò che altrimenti andrebbe perduto. E se questo vale per ogni esperienza umana, che è sotto il segno della perfettibilità, a maggior ragione si applica all'esperienza detentiva dove le situazioni che si creano rivestono sempre particolare delicatezza. Ma il Giubileo non ci stimola solamente a predisporre misure di riparazione delle situazioni di ingiustizia. Il suo significato è anche positivo. Come la misericordia di Dio, sempre nuova nelle sue forme, apre nuove possibilità di crescita nel bene, così celebrare il Giubileo significa adoperarsi per creare occasioni nuove di riscatto per ogni situazione personale e sociale, anche se apparentemente pregiudicata. Tutto ciò è ancora più evidente per la realtà carceraria: astenersi da azioni promozionali nei confronti del detenuto significherebbe ridurre la misura detentiva a mera ritorsione sociale, rendendola soltanto odiosa.
Il Giubileo: riflessione per l'intera umanità 5. Se l'occasione del Grande Giubileo è un'opportunità di riflessione offerta ai detenuti circa la loro condizione, altrettanto può dirsi per l'intera società civile, che si confronta quotidianamente con la delinquenza, per le autorità preposte a conservare l'ordine pubblico e a favorire il bene comune, per i giuristi chiamati a riflettere sul senso della pena e ad aprire nuove frontiere per la collettività. Il tema è stato affrontato più volte nel corso della storia e non pochi progressi sono stati realizzati nella linea dell'adeguamento del sistema penale sia alla dignità della persona umana sia all'effettiva garanzia del mantenimento dell'ordine pubblico. Ma i disagi e le fatiche vissute nel complesso mondo della giustizia e, ancor più, la sofferenza che proviene dalle carceri testimoniano che ancora molto resta da fare. Siamo ancora lontani dal momento in cui la nostra coscienza potrà essere certa di avere fatto tutto il possibile per prevenire la delinquenza e per reprimerla efficacemente così che non continui a nuocere e, nello stesso tempo, per offrire a chi delinque la via del riscatto e di un nuovo inserimento positivo nella società. Se tutti coloro che, a vario titolo, sono coinvolti nel problema volessero approfittare dell'occasione offerta dal Giubileo per sviluppare questa riflessione, forse l'umanità intera potrebbe fare un grande passo in avanti verso una vita sociale più serena e pacifica.
Punizione detentiva e cammini di redenzione La punizione detentiva è antica quanto la storia dell'uomo. In molti Paesi le carceri sono assai affollate. Ve ne sono alcune fornite di qualche comodità, ma in altre le condizioni di vita sono assai precarie, per non dire indegne dell'essere umano. I dati che sono sotto gli occhi di tutti ci dicono che questa forma punitiva in genere riesce solo in parte a far fronte al fenomeno della delinquenza. Anzi, in vari casi, i problemi che crea sembrano maggiori di quelli che tenta di risolvere. ciò impone un ripensamento in vista di una qualche revisione: anche da questo punto di vista il Giubileo è un'occasione da non perdere. Secondo il disegno di Dio, ciascuno deve assumersi il proprio ruolo nel collaborare all'edificazione di una società migliore. Ciò evidentemente comporta uno sforzo grande anche per quanto concerne la prevenzione del reato. Quando nonostante tutto questo viene commesso, la collaborazione al bene comune si traduce per ciascuno, entro i limiti della sua competenza, nell'impegno di contribuire alla predisposizione di cammini di redenzione e di crescita personale e comunitaria improntati alla responsabilità. Tutto questo non deve essere considerato un'utopia. Coloro che possono, devono sforzarsi di dare forma giuridica a queste finalità.
È auspicabile un cambiamento di mentalità 6. In questa linea è, pertanto, auspicabile un mutamento di mentalità, grazie al quale sia possibile provvedere ad un conveniente adeguamento delle istituzioni giuridiche. Ciò suppone, com'è ovvio, un forte consenso sociale e speciali capacità tecniche. Un forte appello in questo senso giunge dalle innumerevoli carceri disseminate nel mondo, dove sono segregati milioni di nostri fratelli e sorelle. Essi reclamano soprattutto un adeguamento delle strutture carcerarie ed a volte anche una revisione della legislazione penale. Dovrebbero essere finalmente cancellate dalla legislazione degli Stati le norme contrarie alla dignità e ai fondamentali diritti dell'uomo, come pure le leggi che ostacolano l'esercizio della libertà religiosa per i detenuti. Saranno pure da rivedere i regolamenti carcerari che non prestano sufficiente attenzione ai malati gravi ed a quelli terminali; ugualmente si devono potenziare le istituzioni preposte alla tutela legale dei più poveri.
Gli amministratori dei penitenziari, i legislatori Ma anche nei casi in cui la legislazione è soddisfacente, molte sofferenze derivano ai detenuti da altri fattori concreti. Penso, in particolare, alle condizioni precarie dei luoghi di detenzione in cui i carcerati sono costretti a vivere, come pure alle vessazioni inflitte talvolta ai detenuti per discriminazioni dovute a motivi etnici, sociali, economici, sessuali, politici e religiosi. Talvolta il carcere diventa un luogo di violenza assimilabile a quegli ambienti dai quali i detenuti non di rado provengono. Ciò vanifica, com'è evidente, ogni intento educativo delle misure detentive. Altre difficoltà sono incontrate dai reclusi per poter mantenere regolari contatti con la famiglia e con i propri cari, e gravi carenze spesso si riscontrano nelle strutture che dovrebbero agevolare chi esce dal carcere, accompagnandolo nel suo nuovo inserimento sociale.
Appello ai governanti 7. Il Grande Giubileo dell'anno 2000 si inserisce nella tradizione degli anni Giubilari che lo hanno preceduto. Ogni volta, la celebrazione dell'Anno Santo è stata, per la Chiesa e per il mondo, un'occasione per fare qualche cosa a favore della giustizia, alla luce del Vangelo. Questi appuntamenti sono così diventati uno stimolo per la comunità a rivedere la giustizia umana sul metro della giustizia di Dio. Soltanto una serena valutazione del funzionamento delle istituzioni penali, una sincera ricognizione dei fini che la società ha di mira per fronteggiare la criminalità, una ponderazione seria dei mezzi usati per questi scopi, hanno condotto, e potranno ancora condurre, a individuare le correzioni che si rendono necessarie. Non si tratta di applicare quasi automaticamente o in modo meramente decorativo provvedimenti di clemenza che restino soltanto formali, così che poi, a Giubileo concluso, tutto torni ad essere come prima. Si tratta, invece, di varare iniziative che possano costituire una valida premessa per un autentico rinnovamento sia della mentalità che delle istituzioni. In questo senso quegli Stati e quei Governi che abbiano in corso o intendano intraprendere revisioni del loro sistema carcerario, per adeguarlo maggiormente alle esigenze della persona umana, meritano di esser incoraggiati a continuare in un'opera tanto importante, prevedendo anche un maggior ricorso alle pene non detentive.
Iniziative concrete per rendere più umana la vita nel carcere Per rendere più umana la vita in carcere, è quanto mai importante prevedere concrete iniziative che consentano ai detenuti di svolgere, per quanto possibile, attività lavorative capaci di sottrarli all'immiserimento dell'ozio. Si potrà così introdurli in itinerari formativi che ne agevolino il reinserimento nel mondo del lavoro, al termine della pena. Da non trascurare è, inoltre, quell'accompagnamento psicologico che può servire a risolvere nodi problematici della personalità. Il carcere non deve essere un luogo di diseducazione, di ozio forse di vizio, ma di redenzione. A tale scopo, gioverà sicuramente la possibilità offerta ai detenuti di approfondire il oro rapporto con Dio, come pure il loro coinvolgimento in progetti di solidarietà e di carità. Ciò contribuirà ad accelerarne il recupero sociale, riportando al tempo stesso l'ambiente carcerario a condizioni di maggiore vivibilità. Nel contesto di queste proposte aperte sul futuro, continuando una tradizione instaurata dai miei Predecessori in occasione degli Anni Giubilari, mi rivolgo con fiducia ai Responsabili degli Stati per invocare un segno di clemenza a vantaggio di tutti i detenuti; una riduzione, pur modesta, della pena costituirebbe per i detenuti un chiaro segno di sensibilità verso la loro condizione, che non mancherebbe di suscitare echi favorevoli nei loro animi, incoraggiandoli nell'impegno del pentimento per il male fatto e sollecitandone i personale ravvedimento. L'accoglimento di questa proposta da parte delle Autorità responsabili, mentre inviterebbe i detenuti a guardare al futuro con nuova speranza, costituirebbe anche un segno eloquente del progressivo affermarsi nel mondo, che si apre al terzo Millennio cristiano, di una giustizia più vera, perchè aperta alla forza liberatrice dell'amore. Invoco le benedizioni del Signore su quanti hanno la responsabilità di amministrare la giustizia nella società, come anche su coloro che sono incorsi nei rigori della legge. Voglia Iddio essere largo con ciascuno dei suoi lumi e colmare tutti dei suoi celesti favori. Ai detenuti ed alle detenute di ogni parte del mondo assicuro la mia spirituale vicinanza, tutti stringendo a me in un ideale abbraccio quali fratelli e sorelle in umanità.
Dal Vaticano, 24 giugno 2000 Johannes Paulus II
Il Cappellano mandato dalla Chiesa Locale Relazione di S.E. Mons. Giuseppe Betori, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana
Saluto di Mons. Ispettore Non penso sia necessario presentare Mons. Betori. La cosa particolare è questa: dovendo trattare un problema di rapporto tra noi e la Chiesa locale, quindi tra noi e il vescovo, ho pensato di invitare il Segretario della CEI, cioè colui che riassume l’atteggiamento dei nostri Vescovi. Quindi il valore del suo intervento, è non soltanto di un Vescovo locale, ma del Segretario del C.E.I. Noi ascoltiamo con fede, cercando di realizzare, anche come ci aveva detto Padre Stancari, l’incontro con Gesú che viene oggi e sempre. Mons. Giorgio Caniato
Relazione di Mons. Betori
Introduzione Grazie. Un cordiale saluto a tutti voi. Un saluto e un ringraziamento per l’invito a Don Giorgio. Ho una qualche esitazione a parlare davanti a voi, che agite in un ambito pastorale di cui – lo dico con molta semplicità - non ho alcuna conoscenza. Ho quindi bisogno di imparare molto. Mi sta insegnando molte cose Don Giorgio, con il quale ho un bel dialogo in vista del coordinamento pastorale in questo settore. Nonostante questo prezioso contatto, resto però un apprendista. Avrete la bontà sia di precisare le espressioni improprie che dovessi usare, sia di completare o correggere gli stessi contenuti della mia esposizione. Avremo modo di farlo nel dibattito dopo la mia introduzione. Il tema che Don Giorgio mi ha affidato è: “Il Cappellano del carcere inviato dalla Chiesa locale”. E’ una riflessione che non vorrei fare in termini astratti, ma concretamente; cioè non dicendo che cosa di per sé lega il Cappellano alla sua Chiesa, quanto, piuttosto, vedendo concretamente come nelle Chiese particolari che sono in Italia si deve oggi esprimere il legame tra la vita della comunità e l’impegno pastorale del Cappellano. Una riflessione non in termini astratti ma concreti, in riferimento, cioè, al cammino che una Chiesa , in una diocesi Italiana, fa oggi, in questo decennio che la Conferenza Episcopale Italiana vuole sia dedicato alla “Comunicazione del Vangelo n un modo che cambia”, come suona il titolo degli orientamenti pastorali decennali. Non parliamo della Chiesa in astratto, ma delle nostre Chiese che hanno come obiettivo concreto, in questi anni, di dare un impulso alla comunicazione del Vangelo in questo mondo che cambia. I Vescovi in questi anni, hanno ulteriormente determinato l’orizzonte della comunicazione del Vangelo. Nell’ultimo triennio la riflessione dei vescovi si è progressivamente spostata. Dapprima si è dedicata a una riflessione cristologica, cioè al fondamento, al contenuto della comunicazione del Vangelo, perché il Vangelo da comunicare altro non è che Cristo stesso. Si è poi fatto un passo ulteriore, cercando di analizzare i cambiamenti che caratterizzano il tempo presente in riferimento al livello antropologico, alla figura dell’uomo, alla sua condizione. Da ultimo si è giunti a riflettere sui luoghi della pastorale, quelli in cui si deve oggi comunicare il Vangelo di Gesú Cristo. Tra questi luoghi i Vescovi hanno privilegiato la parrocchia. La parrocchia come luogo privilegiato di una pastorale della comunicazione del Vangelo è l’argomento dell’ultima Assemblea episcopale. Ma notate bene, la parrocchia non viene assunta in considerazione da sola, ma, come ha detto, con una felice espressione, il Cardinale presidente, la parrocchia “in una pastorale integrata”. In questo quadro, ritengo che qui, con voi, sia mio compito aiutare a capire come il legame che c’è tra il Cappellano e la Chiesa locale passi attraverso l’integrazione del suo lavoro all’interno del carcere in questo orizzonte di comunicazione del Vangelo che caratterizza l’impegno della Chiesa, oggi. Cercherò di farlo sviluppando progressivamente sette punti.
1. Un saldo fondamento cristologico alla nostra missione Ogni azione della Chiesa, anche l’azione del Cappellano del carcere in quanto azione di Chiesa, ha una radice ed ha una meta ben precisa: la persona di Gesú. Non da altri che da Gesú viene il motivo per cui noi andiamo verso gli uomini, e non ad altri se non a Gesú, noi dobbiamo indirizzare le persone che incontriamo nella nostra attività pastorale. Noi, “inviati” dalla Chiesa, dobbiamo ricordarci, allora, che il nostro primo riferimento deve essere ad un altro “inviato”, Gesú, l’inviato del Padre per la salvezza dell’uomo. Qualsiasi azione pastorale che voglia essere pastorale di Chiesa, deve avere come metro, meglio ancora, come fondamento e come finalità, la figura di Cristo come l’invito del Padre. Leggo due passi dai nostri orientamenti pastorali che ci aiuteranno a capire questo. Così troviamo anzitutto scritto all’inizio del documento: “Convinti che compito primario della Chiesa sia testimoniare la gioia e la speranza originate dalla fede nel Signore Gesú Cristo” (CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 1). Che cosa deve portare un Cappellano nel carcere se non speranza?. Ma non c’è un’azione pastorale autentica, in questo luogo, se non in riferimento al fatto che la speranza dell’uomo è la fede nel Signore Gesú Cristo. Di qui il compito di testimoniare la gioia e la speranza originati dalla fede nel Signore Gesù Cristo, vivendo nella compagnia degli uomini in piena solidarietà con loro, soprattutto con i più deboli. E’ molto interessante questa prima affermazione, che sintetizza tutti gli orientamenti pastorali. Essa colloca in modo proprio l’azione di coloro che stanno in una delle situazioni i cui si manifesta la debolezza dell’uomo: con questi uomini occorre entrare in solidarietà, perché si trovano in una situazione di debolezza, e a loro occorre annunciare la gioia e la speranza. Il compito dei Cappellani non è altra cosa rispetto a quello che fa la Chiesa. La Chiesa, oggi, vuole essere gioia e speranza perché rimanda alla fede in Gesú Cristo, in una solidarietà con tutti e soprattutto con i più deboli. Sentire la propria missione all’interno di questo quadro è decisivo per il significato del vostro ministero. Ma per far questo bisogna credere profondamente che il fondamento ed il fine di questa azione è Cristo Gesú. Negli orientamenti pastorali si legge ancora: “La Chiesa può affrontare il compito dell’evangelizzazione solo ponendosi, anzitutto e sempre, di fronte a Gesú Cristo, parola di Dio fatta carne, Egli è “la grande sorpresa di Dio” (NMI, 4), Colui che è all’origine della nostra fede e che nella sua vita ci ha lasciato un esempio affinché camminassimo sulle sue tracce (cf. 1 Pt 2,21). Solo il continuo e rinnovato ascolto del Verbo della vita, solo la contemplazione costante del suo volto permetteranno ancora una volta alla Chiesa di comprendere chi è il Dio vivo e vero, ma anche chi è l’uomo” (CVMC, 10). Se voglio rivolgermi agli uomini di questo nostro tempo, non ho altro modo per capirli se non capire il volto di Cristo, se non contemplare il volto di Cristo perché lì si scopre lo stile con i quale ci si deve rivolgere agli uomini, quello stile missionario conforme a quello del Servo di cui la Chiesa è serva. La Chiesa non ha altro compito – ce lo ricorda il Concilio (cf. GS, 3) – che continuare l’opera stessa di Cristo, i quale è venuto a servire e non ad essere servito. “Questa è la missione della Chiesa nella storia e nel cuore dell’umanità. Perciò essa medita anzitutto e sempre sul mistero di Cristo, fondamento assoluto d’ogni nostra azione pastorale”, continuano a dire gli orientamenti pastorali. Questo mi sembra molto importante: se vogliamo fare una vera azione di Chiesa, essa deve partire dalla convinzione che fondamento e finalità e modello della nostra azione è Cristo, per cui solo dalla contemplazione del volto di Cristo, troviamo l’alimento giusto per configurare la nostra azione pastorale. I nn. 11-31 degli orientamenti pastorali non sono altro che una descrizione della figura di Cristo servo degli uomini, su cui dobbiamo modellare il nostro servizio. Questa figura è modellata su quattro punti. Gesú è “l’inviato del Padre”, Egli è colui che è stato “in mezzo a noi”, Egli è “il Risorto”, Egli è “colui che viene”. Questi quattro aspetti dell’invio di Cristo, devono essere anche il nostro modello. Dobbiamo sentirci inviati anche noi nell’unica missione di misericordia del Padre, venire anche noi a condividere le condizioni dell’uomo, portare la speranza della risurrezione da ogni morte, da ogni negazione dell’umanità, e spingere tutti verso quell’oltre, verso quella fine oltre il tempo che caratterizza la fede cristiana. Il riferimento cristologico non è solo, quindi, l’ispirazione dell’agire del prete nel carcere, ma anche il contenuto stesso della sua azione. In carcere ci si sta a causa di Gesú Cristo, e per essere testimoni, annunciatori Gesú Cristo. Questo sia detto contro ogni rischio di riduzione umanitaria della nostra missione. Non si sta nel carcere per fare del bene alle persone che vi si trovano: ci si sta per il Signore e annunciatori della speranza del Signore. Tutto il resto è conseguenza di questo. Se il resto invece diventa il fondamento, allora Gesú diventa un sovrappiù che poi si elimina, di fatto, e noi ci riduciamo a svolgere una funzione da “crocerossine” della storia. Noi non siamo la “Croce Rossa”, siamo qualche cosa di più: siamo i portatori della figura (Persona) di Cristo. Possiamo così riassumere, dunque, il primo punto della nostra riflessione: riconoscere il fondamento cristologico dell’azione della Chiesa, dare fondamento cristologico all’azione del Cappellano.
2. Una scelta missionaria per le nostre Chiese Giovanni Paolo II, nel corso del Convegno ecclesiale di Palermo nel 1995, ci disse che la Chiesa italiana aveva bisogno di fare una vera e propria “conversione pastorale”, perchè dovevamo superare quello che era la custodia dell’esistente, la cura dell’esistente, e passare alla vera e propria missionarietà, a mettere la Chiesa in missione. Il Papa ci chiese di prendere consapevolezza fino in fondo del fatto che la fede non è un dato acquisito per la nostra gente, ma è, al contrario, una conquista da fare in una società fortemente scristianizzata. In questo tempo, un tempo di radicali cambiamenti, ci si chiede di non dare più per scontato che la persona, e tanto meno la società, abbiano un riferimento al Vangelo. La maggior parte delle persone non ha più un riferimento al Vangelo. Quando diciamo questo non dobbiamo mai dimenticare che il problema riguarda anche me e ciascuno di voi: anche noi siamo parte di questo mondo e spesso viviamo e giudichiamo senza riferimento al Vangelo; magari non ce ne accorgiamo, ma di fatto, siamo succubi della mentalità corrente. E anche tenendo conto del fatto che ci sono persone che sanno reagire a tutto questo, resta per i fatto che la società nella quale noi viviamo è una società che tende a non avere più riferimenti al Vangelo. Esso, pertanto, va annunciato o, per lo meno, riannunciato, tenendo conto che i fanciulli ed i ragazzi oggi mancano d’ogni radice di cristianesimo. Chi fa il parroco sa benissimo che i fanciulli arrivano alla catechesi per la prima comunione senza sapere far neanche il segno della croce, non conoscono alcuna preghiera, non sanno nulla della fede, perché non hanno più un ambiente di fede nel quale crescono. Il riferimento alla fede né glielo dà la scuola, né glielo dà la famiglia, e così fanciulli e ragazzi mancano di radici cristiane. Anche i giovani e gli adulti, sebbene in grande maggioranza continuano a dire di avere un’appartenenza cristiana, manifestano di fatto, fondamentalmente, una grande immaturità nel loro cammino di fede. Non sono adulti nella fede; adulti nell’età sì, ma non nella fede. Molti di loro, poi, appartengono a quella fascia di cristiani che si usa chiamare “della soglia”: stanno di qui e di là; non si capisce se stanno ancora all’interno della comunità cristiana, a cui qualche volta si affacciano, per celebrare il matrimonio, per battezzare i figli, per fare un funerale, ecc., ma dalla quale stanno distanti nella vita quotidiana, perché non vengono mai alla Messa domenicale, non fanno riferimento nel loro comportamento all’etica cristiana, ecc. “Cristiani della soglia”: non si può dire che non sono più cristiani, perchè sono battezzati, e non si può dire che non sono più cristiani, perché essi stessi si dicono tali. In tutte le indagini sociologiche tra l’80 e il 90% degli italiani dice di esser cattolico! Infine, abbiamo il dovere di proporre il Vangelo ai non credenti e ai credenti in altre religioni presenti tra noi. E’ una presenza che si fa sempre più consistente e che chiede di attrezzarci in modo nuovo, sia nella conoscenza degli altri orizzonti di fede e di pensiero sia nelle modalità più appropriate per fare emergere la novità del Vangelo di Gesú e il suo essere l’unica verità che risponde in pienezza alle attese del cuore dell’uomo. Per tutta questa complessa situazione, ci dice il Papa, dobbiamo metterci in atteggiamento e in una pratica di forte evangelizzazione che si deve rivolgere a tutti, senza dimenticare che ci sono alcuni prediletti dal Vangelo, alcuni prediletti da Gesú. Gesú, infatti, ha una predilezione per i poveri, per i diversi poveri della sua e della nostra società, per le diverse situazioni di povertà con le quali ci confrontiamo e tra le quali , ritengo, debba inserirsi in senso pieno anche la condizione del carcerato. Il tema dell’evangelizzazione non è un tema neutro, ci riguarda, vi riguarda, come riguarda ogni operatore pastorale. Annunciare il Vangelo ai poveri, anzitutto ai poveri, prediligendo i poveri, è secondo lo stile di Gesú, e ci riguarda proprio in rapporto alla condizione del carcerato, secondo una tradizione di sempre del Vangelo e della Chiesa, e secondo, anche, ovviamente, le condizioni specifiche di oggi. Di questo parlano i nostri orientamenti pastorali, al n. 62, in cui si ribadisce: “Vogliamo sottolineare come tutti i cristiani, in forza del battesimo che li unisce al Verbo diventato uomo per noi e per la nostra salvezza, siano chiamati a farsi prossimi agli uomini e alle donne che vivono in situazioni di frontiera: i malati e i sofferenti, i poveri, gli immigrati, le tante persone che faticano a trovare ragioni per vivere e sono sull’orlo della disperazione le famiglie in crisi e in difficoltà materiale e spirituale” (CVMC, 62). Non è scritto “i carcerati”, ma tra le tante persone che faticano a trovare una ragione per vivere, che sono nella disperazione, tra le famiglie in crisi, in difficoltà materiali e spirituali, ritengo si possa includere anche la condizione del carcerato. Non dobbiamo chiederci chi sia nostro prossimo tra le varie situazioni di povertà, ma dobbiamo farci prossimi a questi fratelli più piccoli e poveri. Ci è chiesto di prendere a cuore le forme nuove e antiche di povertà, di inventare nuove forme di solidarietà e di condivisione. Le modalità di questa attenzione evangelizzante nelle condizioni di precarietà della vita, ci chiedono di dare corpo non solo a forme di vicinanza e solidarietà, ma anche a forme vere e proprie di annuncio e di esperienze di fede che uniscano Parola, Sacramenti e Testimonianza viva di carità. Si deve essere evangelizzatori in questa condizione: con lo sguardo rivolto a Cristo e il cuore aperto alle condizioni più distanti, più lontane dell’uomo, per riempire di Vangelo il suo cuore e la sua vita. Dicono sempre i nostri orientamenti pastorali: “Resta sempre attuale la necessità di pensare che ogni attività evangelizzatrice è per sua natura indirizzata verso una concreta testimonianza della carità e che in ogni azione di carità va resa evidente la sua identità profonda di rivelazione dell’amore stesso di Dio. In questo modo si fanno emergere le radici trinitarie e cristologiche della carità, per cui il Vangelo di Gesú è servizio di carità e la vera carità è il dono del Vangelo” (CVMC, 62).
3. Una pastorale integrata Aver fatto una scelta di missionarietà, non significa che la Chiesa smobiliti le sue strutture tradizionali di cura delle anime, e se ne vada per percorsi nuovi con i quali raggiungere l’umanità povera di Vangelo. Al contrario, dobbiamo ricercare il rilancio e la rivitalizzazione proprio delle strutture tradizionali della pastorale. I Vescovi, in questi anni, hanno ribadito, in particolare, la centralità della parrocchia, nella prospettiva della comunicazione della fede. Vorrei condividere con voi alcune prospettive emerse al riguardo nella recente Assemblea dei Vescovi. Non sembri che vi stia portando fuori dal vostro ambito, perché se i Vescovi dicono che il centro della pastorale è la parrocchia, allora significa che anche l’azione pastorale nell’ambito del carcere, deve collegarsi con questo centro se non vuole rimanere a sé stante, magari, poi, rimproverando reciproca disattenzione: la comunità cristiana disattenta al carcere ed il carcere disattento alla comunità cristiana. La scelta della centralità della parrocchia non è scontata. Altre Chiese nel mondo hanno fatto altre scelte, in particolare la scelta delle piccole comunità, quella dei movimenti, ecc. L’episcopato italiano non esclude queste forme di vita ecclesiale, ma al contempo ribadisce, però, la centralità della parrocchia. Questa prospettiva è stata ribadita nell’Assemblea della CEI dalla relazione di Mons. Renato Corti. Così la riassume il comunicato finale dell’Assemblea: “La relazione di S.E. Mons. Corti, si è articolata in quattro capitoli essenziali, introdotti dalla premessa che il futuro della Chiesa ha bisogno della parrocchia quale luogo capace di generare alla fede nel quotidiano della vita. Dopo aver evidenziato che la parrocchia è chiamata a esprimere un rapporto vivo e costante con la vita della società in un determinato luogo e un tempo preciso, il relatore ha delineato il volto missionario della parrocchia, che offre a tutti itinerari di crescita nella fede e ai credenti sostegno spirituale nella normale vita quotidiana. Questa connotazione missionaria di servizio alla fede può aiutare la parrocchia a superare il rischio dell’autoreferenzialità” – una piccola comunità di devoti, che stanno bene tra di loro, che vivono un clima di fede, di preghiera, di carità reciproca, anche capace di gesti di solidarietà all’esterno, ma sorda rispetto all’ambiente nel quale è posta – “come pure di configurarsi come ‘stazione di servizio’ – a cui le persone che non hanno alcun legame comunitario, vanno ad assumere catechesi, sacramenti, quel che serve religiosamente nelle varie occasioni della vita - . “Il tratto qualificante dovrà essere pertanto la centralità dell’evangelizzazione, intesa unitariamente come annuncio della parola, celebrazione dei sacramenti, vita di comunione, all’interno di un’azione pastorale che intende raggiungere persone oggi molto differenziate sotto il profilo della vita di fede: i catecumeni, cioè i non battezzati che desiderano ricevere il battesimo, i battezzati la cui fede è rimasta allo stadio della prima formazione cristiana senza giungere a vera maturità; coloro che si sono allontanati dalla partecipazione e dalla vita della Chiesa. Nel terzo capitolo della sua relazione S.E. Mons. Corti ha indicato i caratteri di una parrocchia in stato di evangelizzazione: L’Eucaristia centro del processo di crescita e suo momento costitutivo; il carattere strategico dell’iniziazione cristiana in generale, e quella dei ragazzi in particolare; lo stile di comunione e la consapevolezza della comune missione tra i soggetti pastorali, con gesti visibili di convergenza tra diocesi, parrocchie, associazioni di laici – con particolare riferimento all’Azione Cattolica Italiana -, movimenti, nuove realtà ecclesiali. Nel capitolo conclusivo il relatore ha elencato soggetti responsabili della vitalità evangelica e missionaria della parrocchia: la comunità parrocchiale nel suo insieme; il Vescovo e i sacerdoti suoi collaboratori; i laici e le diverse forme di aggregazione che lo Spirito suscita nella Chiesa, incluse le varie forme di vita consacrata. Il richiamo alla testimonianza personale di vita, inoltre continuerà ad essere il vero appello all’incontro con Cristo e al servizio autentico e generoso”. La centralità della parrocchia è stata, però, ribadita dai vescovi in una visione non frammentata della pastorale; si è parlato infatti di una “pastorale integrata”. Perché questo? Le ragioni più immediate stanno nel fatto che l’esperienza di vita delle persone, quella esperienza che deve essere investita dalla novità della fede, non è più circoscritta in un luogo. Una volta, in uno stesso luogo una persona consumava tutta la propria esistenza: la vita familiare, il lavoro, il processo educativo, tutto era condiviso all’interno di un territorio. Oggi, invece, c’è una molteplicità di ambienti antropologici, a volta geograficamente distanti a cui si fa riferimento: si vive in u luogo, si lavora in un altro, si esprime la propria vita sociale in un altro ancora. E anche quando non c’è una distanza geografia tra i diversi ambiti antropologici in cui si vive, ci sono distanze e diversificazioni di tipo culturale. Basta accendere un televisore e subito siamo proiettati in ambienti culturali diversissimi rispetto al luogo della nostra esistenza. Questo richiede una complessità di presenze di Chiesa che non devono, però, camminare l’una accanto all’altra nella reciproca ignoranza. Di qui l’esigenza di una pastorale “integrata”. Ci aiutano a capire meglio alcune parole della prolusione del Cardinale Ruini all’Assemblea: “L’indicazione più immediata e pregnante che sembra emergere da questa situazione sociale ed ecclesiale è che la parrocchia e la sua pastorale sono chiamate ad entrare in un percorso di collaborazione e integrazione che si muova lungo arie direttrici e che complessivamente potremmo qualificare come ‘pastorale integrata’. Un tale processo richiede che le parrocchie abbandonino le tentazioni di autosufficienza, per intensificare in primo luogo la collaborazione e l’integrazione con le parrocchie vicine, al fine di sviluppare insieme e senza dissonanze, in un medesimo ambito territoriale, quelle attenzioni e attività pastorali che superano di fatto le normali possibilità di una singola parrocchia. Nella realtà variegata dell’Italia le dimensioni delle parrocchie sono assai differenziate, e cosi pure la loro configurazione sociale e le risorse umane di cui dispongono, dalle grandi e grandissime parrocchie delle periferie urbane a quelle minuscole di tanti villaggi, ma qesta necessità di integrazione vale, in forme non rigide bensì analogiche, per l’insieme delle parrocchie e non soltanto per le più piccole di esse”. Un primo livello d integrazione riguarda dunque le parrocchie tra di loro; non soltanto le piccole parrocchie, ma tutte le parrocchie. “La reciproca collaborazione e integrazione – continua il Cardinale – va inoltre, perseguita con le varie realtà ecclesiali presenti sul territorio: dalle comunità religiose alle associazioni e movimenti laicali. Ferma restando la diversità della natura e dei compiti di ciascuno, come anche la più spontanea o invece più scarsa propensione all’intesa che deriva dall’indole e dalla struttura propria di ciascuna di queste realtà, rimangono decisivi a questo proposto l’animo e l’atteggiamento con cui ci si relaziona a vicenda, la percezione concreta a quella ‘unità di missione’ che accompagna tutta la Chiesa, pur nella differenza dei compiti specifici (cf. AA, 2)”. Non è solo, dunque, chiesta integrazione delle parrocchie, ma integrazione tra parrocchie e altre realtà ecclesiali: quelle religiose, quelle laicali, e diverse forme con cui si realizza la pastorale. Riprendiamo il testo del Cardinale Ruini, in cui, nel quadro della pastorale diocesana, individuiamo il posto della pastorale carceraria: “Il fondamentale quadro di riferimento del processo di integrazione è evidentemente la Diocesi, anzitutto nella presenza del Vescovo nei suoi indirizzi pastorali ma anche negli organi di partecipazione e negli uffici che curano i diversi ambiti dell’azione pastorale e che per primi sono chiamati a muoversi in una logica di collaborazione e integrazione. La stassa Diocesi, del resto, senza rinunciare alla sua indole e responsabilità propria di Chiesa particolare, è coinvolta a un livello più ampio in quel medesimo processo di collaborazione e integrazione, perché sono sempre più rilevanti le tematiche pastorali a cui si può rispondere adeguatamente soltanto in una prospettiva che sia anche regionale e nazionale, per non dire europea e mondiale. La fonte prima e la ragione decisiva della ‘pastorale integrata’ non sono comunque i cambiamenti sociologici attualmente in corso, ma l’essenza stessa del mistero della Chiesa, che è comunione, anzitutto con le Persone divine e conseguentemente tra noi, figli in Cristo di un unico Padre e abitati e animati da un medesimo Spirito: sono preziosi a questo proposito i nn. 42 e 43 della Novo millennio ineunte, che mostrano come la Chiesa debba essere, per conseguenza, casa e scuola della comunione e come, prima di qualsivoglia programmazione, sia determinante la spiritualità della comunione, fondamentale ‘principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano’, a cominciare da noi Vescovi e preti”. Giustamente, il Cardinale Ruini dice ce non soltanto perché abbiamo bisogno gli uni degli altri, ma perché il nostro fondamento è un fondamento integrato, noi dobbiamo fare una pastorale integrata. Anche fossimo autosufficienti, non potremmo fare a meno di vivere in comunione la nostra pastorale, perché la comunione è la radice della nostra fede. Il quadro pastorale che emerge, dunque, dai primi tre punti della nostra riflessione è fortemente illuminato dal volto di Cristo, fondamento e fine dell’azione pastorale; è decisamente indirizzato verso l’evangelizzazione, prendendo consapevolezza del fatto che non si può dare per scontato il riferimento personale e sociale a Cristo e al Vangelo; è saldamente radicato nelle forme strutturali forti della presenza della Chiesa sul territorio, a cominciare dalla parrocchia.
4. Presenza della Chiesa locale nell’ambiente del carcere In questo quadro deve collocarsi il servizio della pastorale carceraria, presenza della Chiesa locale nell’ambiente del carcere. Il Cappellano del carcere deve vedere il proprio impegno inserito in questo orizzonte. La sua presenza accanto ai detenuti e al personale del carcere non nasce da una scelta personale , da un autonomo sentimento di vicinanza a situazioni di marginalità, da una vocazione personale allo star vicino ai poveri, ai deboli. Egli è un inviato, che si inserisce nella presenza della Chiesa nel mondo del carcere, e si pone al servizio di questa presenza. La prima responsabilità dell’evangelizzazione nel carcere è, dunque, della Chiesa, della Chiesa locale nel suo insieme, e si esprime, secondo le diverse responsabilità che ciascuno ha nella Chiesa al servizio del Vangelo. Primario, in tal senso, è il compito del Vescovo, a cui spetta discernere carismi, curare la vita cristiana del gregge affidatogli, provvedere a dare unità all’azione pastorale e all’evangelizzazione. Perciò primo responsabile anche di ogni azione pastorale che si fa nel carcere, è il Vescovo. Il carcere, infatti, non è un luogo fuori della Chiesa . Chi lo abita, se cattolico, è parte integrante della comunità cristiana di quel territorio. Se non è cattolico, è parte integrante di quella umanità del luogo al cui servizio, nell’annuncio e nella testimonianza, la Chiesa del luogo è inviata da Cristo. Cattolici e non cattolici del carcere, sono, dunque, parte o destinatari dell’azione della Chiesa locale. Non esistono due Chiese, una fuori ed una dentro il carcere, ma un’unica Chiesa che si fa presente accanto ai suoi figli e a tutti gli uomini nelle diverse condizioni dell’esistenza, compresa la condizione del detenuto. Questo implica che la Chiesa locale estenda la sua missione fin dentro le mura del carcere, e se ne senta, globalmente, come Chiesa, responsabile. Il Cappellano deve sentire la sua missione come parte integrante del progetto pastorale che la Chiesa locale persegue. Tutte e due le cose sono necessarie: il progetto pastorale della Chiesa deve giungere fin dentro le mura del carcere; l’azione del Cappellano deve essere sentita da lui come un’attuazione, nel carcere, del progetto pastorale della Chiesa locale. L’ascolto, pertanto, della parola del Vescovo, l’intesa con gli obiettivi da lui indicati come caratterizzanti la vita comunitaria e l’impegno pastorale, è essenziale se uno vuole essere Cappellano del carcere e non un volontario “sui generis”. Certo, sono consapevole che, nel carcere, il Cappellano c’è in forza di una disposizione dello Stato, che riconosce il diritto del detenuto a professare la propria religione. Ad aprire le porte del carcere al Cappellano è lo Stato. Ma il mandato a star dentro, una volta che questa porta è aperta, non viene al Cappellano dallo Stato. Il mandato al Cappellano viene dalla Chiesa e, nell’ambito dei regolamenti e di quanto essi permettono, egli opera e deve operare secondo le indicazioni della Chiesa, della Chiesa locale da cui egli è mandato in un modo particolare. Questa prospettiva pastorale va sempre tenuta presente: la pastorale carceraria come parte della missione della Chiesa locale e il Cappellano del carcere come mandato dalla Chiesa locale; da una parte la pastorale che si estende fino a comprendere il carcere, dall’altra il Cappellano che si mette in ascolto delle indicazioni della pastorale generale della Diocesi.
5. Annuncio, celebrazione e testimonianza del vangelo nel carcere Il Cappellano è entrato nel carcere: lo Stato gli ha aperto la porta, ma egli, inviato dal Vescovo sta lì per esprimere fin nel carcere, le intenzioni del progetto pastorale della Chiesa locale. Che cosa deve fare a questo punto? Non basta stare nel carcere bisogna anche sapere che cosa fa il Cappellano nel carcere. La risposta mi sembra semplice: quello che fa la Chiesa in ogni ambito di vita degli uomini, cioè annunciare il Vangelo, celebrare il Vangelo, testimoniare il Vangelo di Gesú. Non ci sono altre azioni della Chiesa che non siano riconducibili a questo triplice compito: annuncio, celebrazione e testimonianza del Vangelo di Gesù. Questa è la missione della Chiesa, questa è la missione del Cappellano nel carcere. I rapporti umani nel carcere sono basilari. È fondamentale esprimere attenzione alla condizione di vita dei detenuti, alle condizioni di vita delle loro famiglie, ai problemi degli Agenti di Polizia Penitenziaria, di quanti, per il loro lavoro, nel carcere nel tribunale o in altri luoghi, sono legati alla condizione dei carcerati. Sono essenziali, quindi, attenzione, preoccupazione, conoscenza, stabilire rapporti esprimere vicinanza umana, curare un autentico interesse alle persone. Questa, però, è solo la condizione per operare, non è la sostanza dell’operare, non è il fine per cui si opera nel carcere. Pur vicina alle miserie dell’uomo, la Chiesa non è l’infermiera della storia, né dei popoli, né dei singoli. La sua missione è il Vangelo e trasmettere il Vangelo. Lo stesso vale per il Cappellano, anche quando l’annuncio non può essere fatto in modo esplicito - e questo può accadere anche nel 90% dei casi: in certe condizioni di vita può essere difficile fare immediatamente un annuncio esplicito di Cristo! -, anche quando alla celebrazione non trovi quasi nessuno che vi partecipi – può accadere anche questo in un carcere -, anche quando la testimonianza della carità non è colta nel suo valore o nella sua intenzione propriamente teologale, ma viene percepita soltanto come gesto di solidarietà. Anche quando c’è tutto questo, la presenza del Cappellano nel carcere si giustifica solo in funzione del Vangelo. Perdere questa consapevolezza, farebbe scadere la figura del Cappellano a quella di un assistente psicologico, ad un assistente sociale. È ovvio che il ministero di annuncio, celebrazione e testimonianza va svolto tenendo conto delle particolari condizioni del carcere, alla luce, anche, delle situazioni di crescente pluralismo religioso che oggi caratterizzano sempre di più la condizione carceraria. E qui c’è molta creatività da far nascere, perché non si possono prendere le modalità proprie della parrocchia, gli stesi strumenti, le stesse sussidiazioni e trasportarli, così come sono, all’interno della realtà carceraria. Non ho molto da insegnarvi. Ritengo però importante ricordarvi un principio, che è il principio della essenzialità: guai a frantumare sia l’impianto della trasmissione della fede, sia le forme della celebrazione, sia le modalità della testimonianza e sceglierne qualcuna a caso. L’essenzialità ci chiede di ricondurre tutto ai principi sostanziali della fede, del Dio Uno e Trino, del Cristo salvatore morto e risorto per noi. È ricondurre alle forme essenziali della celebrazione, che è la radice eucaristica di tuta la vita sacramentale del credente. Sta qui la base della centralità della Bibbia, della centralità dell’Eucaristia, della centralità della testimonianza nell’attenzione alle condizioni di maggiore povertà. I poveri devono essere sempre i nostri privilegiati. Inoltre, per quanto riguarda annuncio, celebrazione e testimonianza, celebrazione del Vangelo nel carcere, fondamentale è anche la chiarezza sul contenuto del messaggio evangelico, evitandone una lettura puramente consolatoria – il Vangelo per consolare la gente -, ovvero una lettura falsamente eversiva dell’ordinata convivenza delle persone, sposando le cause di ribellione in quanto tali, perché c’è una società da cambiare. C’è anche un’ordinata convivenza da rispettare, anche all’interno del carcere: è un problema reale, il che non significa giustificare le ingiustizie; la strada da intraprendere ha i due limiti da evitare della duplice deriva, consolatoria o eversiva, della lettura del Vangelo. Il Vangelo è anzitutto un messaggio di verità; è il Vangelo della verità; Cristo è la Verità. Una verità che smaschera ogni falsa immagine di sé, che magari può essersi costruita nell’esperienza delle persone che abbiamo di fronte, a anche ogni arbitrio nei confronti dei fratelli, che può essere stato consumato prima o che si può consumare all’interno del carcere stesso. Il Vangelo è messaggio d’autentica liberazione , che aiuta a riscoprire, nella libertà interiore, il presupposto per ogni esercizio responsabile della libertà nella società. Finché non si acquista libertà per se stessi, non si sarà mai capaci di vivere liberamente con gli altri. Il processo di rieducazione nel carcere è anche un processo di riacquisto di questa dimensione profonda della libertà, per essere capaci di vivere liberamente un domani. Il Vangelo è messaggio di misericordia, svelamento del volto paterno di <dio che perdona, che riabbraccia, e così restituisce dignità a ogni persona umana, traendola fuori dalla sua lontananza e dal suo peccato. Il Vangelo è invito alla lode, alla contemplazione, alla riscoperta di un mondo d’interiorità che dà la vera misura delle cose. Questo è essenziale nella condizione del carcere, là dove gli spazi dell’esteriorità sono ridotti, perché si possono fare poche cose, perché c’è poco movimento, c’è poca esperienza di conoscenza al di fuori. Dare consistenza alla costruzione dell’interiorità è una via privilegiata per dare senso all’esistenza in carcere. L’interiorità è, fondamentalmente, capacità contemplativa di Dio, ma nasce anche da quest’educazione a vedere le cose nella loro essenzialità. Il Vangelo aiuta a far questo, alla contemplazione e alla lode. Il Vangelo è opera di quella carità che, prima ancora di fare opere di carità, è una carità che stabilisce le condizioni di vera fraternità, di vera compagnia umana. Verità, liberazione, misericordia interiorità, contemplazione ed, infine, carità. Sono queste le caratteristiche del Vangelo che toccano in modo più specifico la condizione carceraria.
6. Prete animatore di molteplici servitori e testimone della grazia del Vangelo Nel ministero del Vangelo, il Cappellano non è solo nel carcere. Altre figure ecclesiali lo accompagnano o, sarebbe augurabile, lo possano accompagnare. Di esse il Cappellano dee essere chiaramente il pastore. I volontari - religiosi, religiose, laici e laiche -, che a vario titolo operano nel carcere, per lo più in funzione di azioni di solidarietà, ma non solo di quelle, anche di catechesi eccetera, devono sentire nel Cappellano un riferimento ecclesiale forte. Al Cappellano, come al parroco in una parrocchia, devono potersi ricondurre per una coordinata presenza di Chiesa nel carcere, le diverse attività di volontariato. È evidente che, come in un parrocchia, l’unità dell’azione, non nasce, però, dalla rivendicazione dei ruoli – “sono io che comando” -, ma dalla comunione spirituale che si stabilisce tra tutti e di cui il Cappellano deve essere colui che lavora perché essa possa nascere e rafforzarsi. Perché il coordinamento pastorale e la comunione spirituale, che lo fonda, siano efficaci, devono potersi ancorare anche su una matura spiritualità del Cappellano stesso. Non posso andare a dire agli altri che ci vuole spiritualità di comunione, se io per primo non vivo una dimensione spirituale reale. Il Vangelo della grazia e della misericordia che devo annunciare agli altri, deve anzitutto risplendere nel mio cammino di santità, di tensione verso la santità, che fa della santità personale una meta concreta. Lo splendore della carità che costruisce la comunione deve essere, anzitutto, patrimonio della vita cristiana del pastore, del Cappellano; la forza redentrice della Croce deve essere, anzitutto, vissuta dal Cappellano nella quotidianità di un servizio che spesso riserva non poche difficoltà, non poche sofferenze e magari anche delle sconfitte.
7. Dal carcere alla comunità, dalla comunità al carcere Il Cappellano non ha solo responsabilità pastorale del carcere, ma anche dovere di animazione dell’intera comunità cristiana in rapporto ai problemi della pastorale carceraria. L’esperienza e la conoscenza che il Cappellano ha della realtà carceraria non valgono soltanto per la sua azione, ma valgono anche per arricchire di consapevolezza l’intera comunità cristiana. Questo comporta diversi impegni. Anzitutto occorre far conoscere la realtà del carcere e stimolare una visione cristiana della realtà carceraria. Non è facile c’è in giro molto giustizialismo o, viceversa, perdonismo, a livello politico, ma soprattutto culturale. C’è, addirittura, a volte, strumentalizzazione della realtà carceraria. Una lettura di fede della realtà carceraria è un dono che il Cappellano deve fare alla comunità cristiana, ribadendo che il visitare, nelle sue diverse forme, i carcerati, è indicato da Gesù come uno dei metri del giudizio finale. La comunità cristiana si deve ricordare che verrà giudicata anche su quanto e come ha visitato i carcerati. Un secondo impegno è la sensibilizzazione alla pastorale carceraria dei luoghi formativi in cui i sacerdoti, i religiosi, i laici, vengono educati: seminari, centri di formazione dei religiosi, delle religiose e dei laici operatori pastorali. Terza indicazione: aiutare ad individuare i modi sempre più propri per aiutare i carcerati nel loro cammino di riabilitazione. I tempi cambiano, c’è quindi da fare un progetto non solo di come stare nel carcere, ma anche di come aiutare ad uscire dal carcere come uomini pieni, veri, capaci di una relazione sociale. Ancora due impegni: suscitare vocazioni al servizio del volontariato nel carcere e preoccuparsi di individuare i nuovi problemi che la condizione carceraria pone e le relative risposte ecclesiali. Il fatto che oggi aumentino, nella popolazione carceraria, le presenze di stranieri, e a volte di stranieri di altre religioni, implica che bisognerà pure attivare preti e laici, religiosi e laici provenienti da quei paesi, più vicini alle culture da cui provengono queste persone, per accompagnare il Cappellano nella sua azione nel carcere. Un ultimo impegno ci è chiesto: curare una stretta relazione con gli organismi diocesani per risolvere i problemi a livello di catechesi, soprattutto di celebrazione dei sacramenti: (battesimi, cresime, matrimoni) o altre situazioni pastorali che nascono all’interno del carcere. Anche la comunità cristiana, però, ha dei doveri verso la pastorale carceraria, un sostegno da assicurare, che coinvolge anche l’aspetto economico. Ci sono i fondi diocesani dell’otto per mille che hanno anche una destinabilità al sostegno dell’azione dei Cappellani del carcere. Occorre anche cercare di suscitare nelle comunità la consapevolezza che è giusto destinare parte dell’otto per mille per l’azione pastorale che il Cappellano svolge nel carcere. Il coinvolgimento da parte della comunità, pero, non è soltanto economico, è molto più ampio, implica il riconoscimento dei ruolo del Cappellano; si estende alla collaborazione con lui, all’ascolto della sua esperienza nei luoghi di partecipazione come, ad esempio, i consigli presbiterali e consigli pastorali, in cui la sua voce deve essere sentita per poter comprendere la situazione carceraria là dove si fa discernimento pastorale. La comunità deve far crescere la vocazione al volontariato caritativo, ma anche a quello spirituale, il volontariato, cioè, della preghiera. Anche la preghiera alla fine cambia e converte le persone: lavoro e preghiera, dunque. La comunità cristiana deve, ancora, estendere l’opera del Cappellano alle famiglie toccate dalla detenzione di un congiunto, e al reinserimento degli ex carcerati nel mondo sociale e del lavoro. Queste sono responsabilità della comunità nel suo insieme, nei confronti della pastorale carceraria.
Per concludere Ho aperto la mia riflessione rimandando alle linee pastorali della Chiesa italiana oggi, e vorrei chiudere sempre con alcune parole che si trovano proprio al termine degli orientamenti pastorali. Ecco le parole dei Vescovi, che mi sembra possano ben riassumere il senso delle mie indicazioni: “Come i Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Il Verbo ha compiuto la sua missione scendendo, celandosi in ogni nostra oscurità, con umiltà e con un profondo amore per gli uomini, per tutti noi peccatori. Anche la Chiesa, allora, non potrà seguire altra via che quella della kènosis per rivelare al mondo il Servo del Signore, l’Agnello di Dio che porta i peccati del mondo. Per questo san Paolo chiede a Tito di insegnare ai suoi fedeli a “esser mansueti, mostrando ogni dolcezza verso tutti gli uomini” (Tt 3,2). Lo stesso san Paolo, proprio perché consapevole della sua condizione di peccatore perdonato, di “vaso di misericordia” (cf. Rm 9,23), a cui Dio ha mostrato la via della vita nella sua infinita misericordia, comprende che l’unico modo per rivolgersi agli uomini in maniera conforme alla grazia ricevuta è quello di parlare loro in ginocchio: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,20). Per questo la Chiesa ha bisogno soprattutto di santi, di uomini che diffondano il buon profumo di Cristo con la loro mitezza, mostrando piena consapevolezza di essere servi della misericordia di Dio manifestatasi in Gesú Cristo. È questa la via che porta alla fecondità: la Chiesa umile e serva, che scende accanto agli uomini, soffrendo con loro in ogni loro debolezza, può trasmettere davvero il Verbo della vita fino a far rinascere la speranza e la gioia nei cuori degli uomini”(CVMC,63-64). Essere un servo della misericordia di Dio che si è manifestata in Gesú Cristo: penso che questa possa essere una bella definizione per un Cappellano del carcere, ed è anche l’augurio che vi faccio.
La Pastorale del Penitenziario, a cura dell’Ispettorato Generale dei Cappellani delle Carceri Italiane, Anno VIII – n. 1 – Gennaio – Febbraio 2004
La realtà carceraria e la Chiesa Italiana Intervista di Don Giorgio Caniato, Ispettore Generale dei Cappellani delle carceri, a S. E. Mons. Ennio Antonelli, Segretario Generale della C.E.I., per la rivista dell'Ispettorato "NOTIZIARIO"
1. Nell'ambito della rievangelizzazione della società contemporanea, qual è il progetto della Chiesa italiana per quanto attiene al mondo dell'amministrazione della giustizia? La Chiesa italiana non esclude certamente dall'ambito della sua progettualità il mondo dell'amministrazione della giustizia. Occorre però capire che la sua competenza riguarda la dimensione pastorale e culturale senza interferire nella sfera dell'autonomia delle istituzioni. La prima proposta di lavoro pubblicata a cura della Presidenza della C.E.I. definisce il progetto culturale "una dinamica di ricerca, di risposta, di proposta e di comunicazione". La Chiesa si sente chiamata, nel suo ordine, ad un impegno creativo anche nel campo specifico dell'amministrazione della giustizia, perché l'incontro con Cristo sia germe di rinnovamento della società e delle strutture. Deve sentirsi coinvolta l'intera comunità ecclesiale sulla spinta delle vicende che hanno scosso la coscienza del Paese e portato alla ribalta fenomeni fino a ieri semilatenti, quali la delinquenza minorile, la corruzione nella politica, nell'economia, nelle istituzioni, i conflitti e le interferenze tra l'ambito politico e quello giudiziario, le contrapposizioni tra operatori della giustizia, l'uso distorto o non sufficientemente giustificato della custodia cautelare, la sconcertante lentezza dei procedimenti, la paralisi dell'amministrazione giudiziaria a fronte dell'inarrestabile dilagare dell'illegalità, il fenomeno dei "pentiti". Provo ad elencare alcuni valori che costituiscono il messaggio di base della comunità a tutte le persone impegnate nel mondo della giustizia, la verità e la speranza, il primato e la centralità della dignità della persona, i diritti inviolabili di ogni uomo, la moralità e la coscienza, la ricerca di senso e la responsabilità, l'intangibilità della vita e il carattere sacro dei vincoli familiari, l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge e la solidarietà. A livello di elaborazione pastorale è irrinunciabile il contributo dei centri di ricerca cattolici e dei cristiani operanti nel settore, non esclusi i cappellani delle carceri. Il progetto, però, in questo come in altri ambiti resterebbe sterile senza la mediazione di tutte le componenti della comunità cristiana (Vescovi, presbiteri, religiosi/e, laici), delle Parrocchie, comunità religiose, aggregazioni laicali e volontariato; senza un'azione a vasto raggio attraverso i mezzi della comunicazione sociale per influire sull'opinione pubblica e sulla cultura diffusa, indispensabile premessa per la creazione del diritto e per la definizione di politiche penali efficaci e nello stesso tempo rispettose della dignità della persona. Impossibile, allora, non riconoscere il ruolo importante che potrà essere svolto dai cappellani specialmente nei confronti della comunità ecclesiale per aiutarla a capire la realtà giudiziaria, per suggerire iniziative e sensibilizzare l'opinione pubblica circa le attività promosse.
2. Oggi si parla di "etica" a vari livelli, dalla bioetica all'etica degli affari. Non si dovrebbe elaborare anche una seria riflessione etica sulla "pena"? In ogni epoca la Chiesa ha levato la sua voce in favore dell'umanizzazione del sistema penale. Nel cammino compiuto dal diritto penale in duemila anni di cristianesimo, dalla legge del taglione, tuttora vigente nei paesi islamici, al dettato dell'articolo 27 della Costituzione Repubblicana, alla moderna edilizia carceraria, alle scuole interne, ai tentativi di risocializzazione, non è possibile non riconoscere l'intuizione Biblica secondo cui la pena è data per la correzione degli uomini, sviluppata poi dalla patristica e recepita da Giustiniano nella sua codificazione, fino alle attuali acquisizioni dell'antropologia e dell'etica cristiana. La psicologia ci insegna che i sistemi repressivi o solamente punitivi non riabilitano il colpevole, ma sviluppano nella sua coscienza aggressività e violenza, odio e bisogno di vendetta. Se è vero che la pena detentiva distrugge la persona e la sua vita familiare, se è vero che il recidivismo interessa il 60% dei detenuti, se il carcere è facilmente luogo di contagio e troppo spesso restituisce alla società creature spente, svuotate nel più profondo dell'essere, senza amore e senza speranza, si deve riconoscere che qualche cosa è sbagliato nel sistema penitenziario e deve urgentemente essere riformato. In Parlamento e alla Bicamerale sono in discussione alcuni progetti di riforma della giustizia. Ci domandiamo se alla base dell'attuale dibattito culturale, spogliato della sua dimensione tecnico–giuridica o corporativa, ci sia una filosofia ispirata ai valori di autentica umanità e del Vangelo. Non sono pochi e non marginali i nodi da sciogliere per i quali occorre offrire un significativo contributo di riflessione. Si pensi, per esempio, alla individuazione di pene sostitutive educanti e socialmente utili, di misure di sicurezza o di difesa sociale proporzionate allo stato di pericolosità del reo non ostative alla sua risocializzazione. A riguardo è preziosa la linea suggerita già dalla XXV Assemblea dei Vescovi italiani nel 1985: "Il perdono cristiano sollecita anche una nuova riflessione sulla giustizia, che porti alla revisione delle pene, al rinnovamento dei codici, all'esercizio di un diritto alleato all'amore, oltre ché all'impegno per carceri che siano a misura d'uomo, nel rispetto di una giustizia aperta alla speranza". L'antropologia e l'etica cristiana rappresentano un punto di riferimento sempre più imprescindibile in una società complessa e pluralista come l'attuale e in un tempo nel quale delicati problemi etici entrano sempre più nell'ambito delle scelte politiche e legislative. Penso che sia quanto mai tempestivo il Convegno promosso dal Dipartimento di Scienze Religiose dell'Università Cattolica di Milano sul tema: "Colpa e pena? La teologia di fronte alla questione criminale". Nella visione cristiana il reato non è tanto una frattura con la società, quanto il rifiuto del rapporto di comunione con Dio, anche se non sempre pienamente avvertito nel sacrario della coscienza del reo. Una sanzione penale concepita soltanto come atto di repressione o di autodifesa della società, che ignori ciò che si verifica nel cuore del reo, colpevole o presunto che sia, è una punizione divelta dalle sue radici più profonde. La rieducazione del condannato inizia ordinariamente con la sua Conversione, senza conversione non è mai pieno e perseverante il suo recupero.
3. Quale rilevanza e quale significato attribuisce la Chiesa alla presenza del Cappellano nella realtà carceraria e che cosa si aspetta da essa? La rilevanza nel mistero della Chiesa non è data dal prestigio dell'incarico o dal clamore dell'attività svolta, ma dal grado della identificazione di ognuno con Cristo, unico Maestro e Salvatore, dalla caritàche unisce a Cristo e ai fratelli. In tale prospettiva la Chiesa attribuisce grande rilevanza alla presenza dei Cappellani nella realtà carceraria. I Cappellani nel carcere sono strumento della misericordia e della solidarietà di Cristo, profeti della sua parola di verità e di speranza, messaggeri di riconciliazione, ministri di una Chiesa in missione. Soltanto questo la Chiesa aspetta da essi: che dai loro gesti traspaiano i gesti di Cristo, le loro parole siano l'eco della sua voce, la loro vita intera parli di lui. Penso alla complessità del mondo carcerario, all'eterogeneità della sua composizione: condannati, inquisiti, agenti di custodia, amministratori, uomini di legge, giovani e anziani, ergastolani e minori disadattati; agli infiniti problemi che il cuore si porta dentro: violenza e rassegnazione, aggressività e vuoto interiore, desiderio di redenzione e odio, amarezza e ossessione, affetti e nostalgie, rimorsi e delusioni… Un quadro estremamente impegnativo che esige un carisma particolare, una intensa vita di unione con Cristo, una presenza costante e una dedizione senza confini nel carcere e nella sua cerchia, per accogliere e illuminare detenuti e coloro che li detengono, destare la voce della coscienza, riconciliare con Dio e con i fratelli, vincere la scontrosità di chi sembra inavvicinabile, rompere il silenzio dello scoramento, ritessere i vincoli familiari, rieducare e risocializzare, risvegliare la solidarietà della comunità ecclesiale e della società, promuovere e animare gruppi di sostegno psicologico ed economico… Nessuno è irredimibile. La Grazia è creativa e prepara strade impensate. Accostarsi per deporre nel cuore di un fratello una scintilla di vita è difficile, a volte arduo, ma è un atto d'amore. Al centro di tutto, quel Cristo dietro le sbarre in copertina del "Notiziario", pubblicato nel primo anniversario della morte di Mons. Curioni. Immagine eloquente della solidarietà di Dio con chi ha conosciuto i rigori e le iniquità della giustizia umana che traduce scenicamente quella straordinaria pagina del capitolo 25 di Matteo: "Ero carcerato e siete venuti a trovarmi" … "Quando ti abbiamo visto in carcere e siamo venuti a visitarti?" … "Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l'avete fatto a me" (Mt 25,36-40).
4. Dopo questo periodo piuttosto lungo di mancanza di un Ispettore dei Cappellani, la C.E.I. che cosa si attende e quale valore attribuisce all'attività dell'ispettore, che è una figura "sui generis", posta, per così dire, a metà fra il funzionario di Stato e il responsabile di un settore della pastorale della Chiesa? Non stupisce che all'Ispettore dei Cappellani la legge riconosca funzioni amministrative accanto a funzioni pastorali. Lo Stato non si attribuisce alcuna competenza in materie di carattere spirituale e pastorale, ma si impegna con i propri mezzi e nel proprio ordine ad assicurare ai cittadini la libertà di professare la propria fede religiosa. L'Ispettore dei Cappellani riceve dall'Amministrazione pubblica i suoi poteri in materia amministrativa in quanto inserito all'interno del mondo carcerario, e dall'autorità ecclesiastica - come tutti i Cappellani - facoltà, poteri e indicazioni pastorali per le sue funzioni attinenti il campo spirituale e canonico. Le funzioni di "vigilanza e coordinamento dei servizi", che l'art. 1 della legge 4 marzo 1982, n. 68, gli conferisce, si riferiscono necessariamente all'ambito di competenza dello Stato, ma non possono non riguardare anche la sfera ecclesiastica, in quanto, con tale affermazione, lo Stato riconosce implicitamente anche i compiti conferiti dall'ordinamento canonico. Per la sua configurazione di anello tra l'ordinamento dello Stato e quello della Chiesa, l'Ispettore dei Cappellani ha davanti a sé un delicato e impegnativo ventaglio di rapporti: a) Con l'Amministrazione carceraria La principale e fondamentale forma di collaborazione richiesta all'Ispettore è il retto uso delle sue competenze. Non saranno mai abbastanza raccomandati il discernimento illuminato della verità, la testimonianza di un alto senso di umanità, la prudenza e il coraggio, con il dovuto rispetto e cortesia, nella tutela della propria libertà apostolica e della dignità e dei diritti di tutti. b) Con l'Autorità ecclesiastica La fraternità sacramentale e la stessa efficacia del suo ministero esigono dall'Ispettore dei Cappellani uno stretto contatto con i Vescovi, alimentato in un clima di fede, di scrupolosa diligenza nell'osservanza delle direttive e delle norme canoniche e di dialogo costruttivo nelle consultazioni e nei rapporti. c) Con gli altri Cappellani L'azione di vigilanza e di coordinamento dei servizi prevista dall'art. 1 della citata legge n. 68/1982, interessa primariamente il rapporto con i confratelli Cappellani. L'Ispettore è il centro di unità e l'ispiratore dinamico, nel quadro delle scelte dei Vescovi, della pastorale d'insieme sviluppata dal collegio dei Cappellani. I Vescovi si attendono da lui una attenzione particolare per la formazione permanente e l'aggiornamento dei Cappellani, in spirito di umile e costante servizio, offerto con il calore dell'amicizia, che conduce alla sollecitudine nelle difficoltà e si esprime nei gesti semplici della carità fino alla condivisione e alla comunione fraterna. d) Con le associazioni di volontariato I "servizi" di cui parla l'ari. i sopra citato comprendono, secondo una prassi consolidata, anche i gruppi di volontariato d'ispirazione Cristiana. È compito dell'Ispettore coordinarne l'attività e, con gli altri Cappellani, orientarla e promuoverla nel rispetto dei limiti imposti dalla legge e dalle esigenze dell'ambiente carcerario, non dimenticando che anche i volontari hanno bisogno di solida formazione umana e spirituale. L'orizzonte dell'azione del volontariato non può limitarsi ai problemi economici o al reinserimento dei detenuti nella vita sociale, ma deve estendersi a tutti i problemi delle famiglie dei carcerati e di quelle delle vittime della criminalità. e) Con la comunità ecclesiale All'Ispettore i Vescovi chiedono un particolare contributo per la sensibilizzazione dell'opinione pubblica sul fenomeno del sistema carcerario con tutti i problemi connessi che abbiamo cercato di evidenziare. L'ordinamento penitenziario italiano è aperto alla collaborazione della comunità esterna, specialmente nel campo della rieducazione. La comunità ecclesiale non può non esserne coinvolta e non sentire la propria vocazione ad essere fermento, in una società distratta, perché il cammino della riforma della giustizia proceda secondo il Vangelo. Criminalità e società sono due mondi diversi e contrapposti. Solo la carità li può unire nel nome di Cristo.
Per la rivista dell'Ispettorato "Notiziario" Anno XXI Maggio- Giugno 1997 n. 3
Situazione e prospettive
A cura di S.E. Mons. Giancarlo Maria Brigantini Presidente della Commissione Episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace
Questa riflessione di Mons. Brigantini è una proposta per il Consiglio permanente della CEI. Non è una sintesi di valutazioni già concordate e non costituisce un documento conclusivo di magistero. Come dice lo stesso autore, è una raccolta di dati d’avvio per l’inizio di riflessioni collegiali. L’attenzione ufficiale della CEI ala pastorale penitenziaria, è tuttavia importante perché mostra, oltre all’ovvia assunzione di responsabilità, una volontà di inserimento concreto di essa in programmi di lavoro. Le presenti valutazioni sono già fin d’ora di grande interesse per i cappellani, sia per l’autorevolezza di Mons. Brigantini, sia per la sa competenza specifica (è stato cappellano a Crotone), che fa presumere anche una particolare affidabilità presso i vescovi. L’autore riassume la fisionomia pastorale del cappellano, delineandone competenze e priorità, ma si estende alle figure dei coadiutori e sostenitori (volontariato, comunità cristiana) chiarendone le responsabilità e il rapporto con il cappellano stesso, che nel corso delle attività detiene un ruolo di guida.
1.1. In diverse occasioni è emersa in questo Consiglio Episcopale Permanente l’esigenza di riflettere sulla situazione delle carceri italiane, non soltanto sotto la spinta emotiva conseguente a fatti di cronaca, che hanno determinato tensioni e sconcerto nell’opinione pubblica, ma soprattutto di fronte alle testimonianze provenienti da quel mondo, in particolare da parte dei cappellani, degli operatori pastorali, dei volontari che condividono quotidianamente l’esperienza del mondo del carcere. In questa sessione sembra finalmente verificarsi questa opportunità, della quale ci si intende avvalere, con la consapevolezza che, se da un lato non si pensa di esaurire con oggi la complessa problematica, dall’altro andranno evitate valutazioni affrettate e considerazioni generiche, che non darebbero alcun apporto alle prospettive pastorali, che sono quelle che qui ci interessano. Restano pertanto fuori dal nostro orizzonte talune tematiche contigue a quelle della detenzione, seppure con essa indiscutibilmente connesse, in particolare il tema dell’amministrazione della giustizia. 1.2. Vanno anche chiariti gli obiettivi che questa riflessione si propone di raggiungere. Non è certamente il caso di pensare in questo momento alla elaborazione di un qualche orientamento pastorale ben definito, tanto meno ipotizzare l’elaborazione di un documento. Lo scopo è ben più modesto nelle finalità, ma non nelle motivazioni. Infatti, la discussione di oggi intende consentire a noi Pastori di riflettere liberamente sulla base di alcuni dati di avvio; di rendere coscienza dei tanti problemi concreti che affliggono i detenuti e coloro che a vario titolo entrano nelle strutture penitenziarie; di condividere le esperienze personali maturate nei nostri contatti con questo mondo; di dare voce ai cappellani e agli operatori pastorali che sono presenza di Chiesa in questo ambiente; di cominciare a creare una sensibilizzazione delle comunità ecclesiali; di individuare forme e modi nuovi di testimonianza e di servizio per i detenuti. In altri termini si vuole dare inizio a un discorso e a un cammino, senza fissarne fin da ora tutte le scansioni. Non è da escludere ovviamente che dal nostro confronto si possa anche maturare la convinzione che sia opportuno dire una parola autorevole dei Vescovi su questo ambito pastorale, lasciando a una riflessione futura l’indicazione di tematiche, articolazione e livello di intervento. 1.3. Il mio intervento si articolerà in quattro brevi momenti: a) esposizione di alcuni dati per delineare il quadro delle carceri in Italia oggi; b) richiamo al messaggio pubblicato dal Papa in occasione del Giubileo del 2000; c) riferimento al ministeo del cappellano; d) taluni spunti circa il volontariato carcerario e circa l’apporto di soggetti esterni.
2.1. Non è facile dar conto della situazione delle carceri oggi in Italia, in quanto è oltremodo difficile ricondurre ad analisi unitaria la situazione di strutture diversificate, nelle quali le condizioni ambientali di vita e i riflessi sui detenuti dipendono da tutta una serie di fattori legati alle singole realtà. Cercherò pertanto di individuare alcuni dati oggettivi, suggeriti dagli operatori pastorali che sono presenti nelle case circondariali e nelle case di reclusione, per consentire di avere alcuni elementi base per la riflessione. Occorre peraltro rilevare che questo tipo di strutture è anche condizionato dalla popolazione che le abita: uomini, donne, minori, e che determina esigenze e problemi connessi. 2.2. Un primo elemento da tenere presente è che la struttura carceraria è una struttura repressiva perché isola i detenuti, impone loro leggi, prescrizioni e orari limitativi e mette insieme persone che non s conoscono e che hanno educazione, moralità, sensibilità e abitudini diverse. Questa considerazione preliminare è aggravata dalle difficoltà e dai problemi che si riscontrano in queste strutture. Anzitutto il sovraffollamento. Si tratta di un fenomeno non nuovo, ma che al presente ha raggiunto livelli prima sconosciuti. Anche se le cause di questo dato non sono tutte imputabili all’amministrazione penitenziaria, non si può non rilevare l’ulteriore disagio che esso provoca tra i detenuti. Altro fattore che crea gravi sofferenze per i detenuti è la diminuzione dei fondi per l’assistenza sanitaria e per le attività lavorative da svolgere in carcere. Negli ultimi anni i problemi della popolazione carceraria hanno dovuto tener conto anche del fatto che il 30% dei detenuti è costituito da extra-comunitari che difficilmente riescono a convivere a motivo della diversità di etnia e di religione. Per non dire dei problemi di carattere sanitario che questa promiscuità obbligata determina. Volendo riassumere in una espressione, che potrebbe sembrare troppo forte, il carcere è una struttura violenta, che limita in modo forzato quasi totalmente la libertà fisica ed è dunque una struttura in sé antiumana e anticristiana. Un motivo i speranza tuttavia è dato dal fatto che la presenza di cappellani e volontari nel carcere riesce a dare un forte aiuto per il cambiamento di vita e per concorrere al recupero dei detenuti, preparandone il ritorno nella società civile.
3.1.In occasione del Giubileo del 2000, il Papa indirizzò u solo messaggio potremmo dire ‘di categoria’, proprio per il Giubileo nelle carceri, celebrato il 9 luglio di quell’anno. Si tratta di un documento significativo e di grande valore umano, civile, religioso e pastorale, che mantiene intatta la sua valenza in modo particolare per la efficace concretezza con la quale sono affrontati i problemi dei detenuti e delle strutture carcerarie Intendo qui riproporre i passaggi essenziali del Messaggio, che ritengo una traccia utile per accostarsi a questa realtà e per sostenerla con carità evangelica e anelito di redenzione. 3.2. il primo passaggio che il Papa propone è legato al tempo e agli atteggiamenti che il suo trascorrere genera, guardando il specifico alla condizione di chi, stando in carcere, “pensa con rimpianto o con rimorso ai giorni i cui era libero, e subisce con pesantezza un tempo presente che non sembra passare mai” (n.2). Questa considerazione sul trascorrere del tempo, si aggancia immediatamente alla considerazione che “il tempo è di Dio [… ] anche il tempo della detenzione” e che questa signoria di Dio non può essere contesa dai pubblici poteri che, pur privando “della libertà personale un essere umano ponendo quasi tra parentesi un periodo più o meno lungo della sua esistenza, devono sapere di non essere signori del tempo del detenuto”. Ugualmente il detenuto “non deve vivere come se il tempo del carcere gli fosse irrimediabilmente sottratto: anche il tempo trascorso in carcere è tempo di Dio e come tale va vissuto; è tempo che va offerto a Dio come occasione di verità, di umiltà, di espiazione ed anche di fede” (n.3) 3.3. Il Santo Padre ricorda poi con forza che il Giubileo è “un’occasione da non perdere […] per provvedere a sanare eventuali ingiustizie, per lenire qualche eccesso, per recuperare ciò che altrimenti andrebbe perduto”. La prospettiva nella quale il Papa si colloca non è solo in vista di rimediare situazioni negative di ingiustizia, ma mira soprattutto, positivamente, ad assumere come modello di impegno la misericordia di Dio che, “sempre nuova nelle sue forme, apre nuove possibilità di crescita nel bene”. Guardando al traguardo immediato del Giubileo, Giovani Paolo II invita perciò ad “adoperarsi per creare occasioni nuove di riscatto per ogni situazione personale e sociale, anche se apparentemente pregiudicata”, in modo particolare nella realtà carceraria, sottolineando che “’astenersi da azioni promozionali nei confronti del detenuto” avrebbe significato “ridurre la misura detentiva a mera ritorsione sociale, rendendola soltanto odiosa” (n.4) 3.4. Interessante per una corretta visione del problema è l’evidenziazione costante dello stretto collegamento tra realtà carceraria e società civile. Sottolinea, infatti il Papa che se il “Grande Giubileo è un’opportunità di riflessione offerta ai detenuti circa la loro condizione, altrettanto può dirsi per l’intera società civile, che si confronta quotidianamente con la delinquenza, per le autorità preposte a conservare l’ordine pubblico e a favorire il bene comune, per i giuristi chiamati a riflettere sul senso della pena e ad aprire nuove frontiere per la collettività”. E in questa linea di revisione non ci si può nascondere che la storia remota e recente è stata percorsa da un diagramma in continua oscillazione tra “l’adeguamento del sistema penale sia alla dignità della persona umana sia all’effettiva garanzia del mantenimento dell’ordine pubblico” e il “molto che resta ancora da fare”, come testimoniano i disagi, le fatiche vissute nel complesso mondo della giustizia e, ancor più, “la sofferenza che proviene dalle carceri”. L’appello alla coscienza di ciascuno diventa pressante perché si faccia “tutto il possibile per prevenire la delinquenza e per reprimerla efficacemente così che non continui a nuocere e, nello stesso tempo, per offrire a chi delinque la via di un riscatto e di un nuovo inserimento positivo nella società”. Pur riconoscendo che “la punizione detentiva è antica quanto la storia dell’uomo”, il Papa rileva che “i dati che sono sotto gli occhi di tutti ci dicono che questa forma punitiva in genere riesce solo in parte a far fronte al fenomeno della delinquenza. Anzi, in vari casi, i problemi che crea sembrano maggiori di quelli che tenta di risolvere. Ciò impone un ripensamento in vista di una qualche revisione” (n.5). 3.5. Per non restare nel vago degli auspici, il Papa passa alle proposte concrete e operative. Anzitutto chiede “un mutamento di mentalità, grazie al quale sia possibile provvedere ad un conveniente adeguamento delle istituzioni giuridiche”, attraverso “un forte consenso sociale e speciali capacità tecniche”. Segue la richiesta di “un adeguamento delle strutture carcerarie ed a volte anche una revisione della legislazione penale”, in modo particolare la cancellazione delle “norme contrarie alla dignità e ai fondamentali diritti dell’uomo” e delle “leggi che ostacolano l’esercizio della libertà religiosa per i detenuti”. Si impone altresì la revisione dei “regolamenti carcerari che non prestano sufficiente attenzione ai malati gravi ed a quelli terminali”, nonché il potenziamento delle “istituzioni preposte alla tutela legale dei più poveri”. Perché non si pensi che ci siano isole felici laddove “la legislazione è soddisfacente”, il Papa ricorda che “molte sofferenze derivano ai detenuti da altri fattori concreti”, come le “condizioni precarie dei luoghi di detenzione in cui i carcerati sono costretti a vivere” e le “vessazioni inflitte talvolta ai detenuti per discriminazioni dovute a motivi etnici, sociali, economici, sessuali, politici e religiosi”. Per non dire delle condizioni ambientali che trasformano talora il carcere in “un luogo di violenza assimilabile a quegli ambienti dai quali i detenuti non di rado provengono”, vanificando evidentemente “ogni intento educativo delle misure detentive”. Da ultimo il Papa ricorda le sofferenze inflitte ai detenuti dalla difficoltà di “poter mantenere regolari contatti con la famiglia e con i propri cari” e le gravi carenze nelle strutture che non agevolano chi, uscendo dal carcere, cerca, come è suo diritto, un nuovo inserimento sociale (n.6). 3.6. Il Messaggio del Santo Padre, come è noto, si chiudeva con un appello ai governanti, affinché, continuando la tradizione degli Anni Giubilari, mettessero in atto provvedimenti in “favore della giustizia, alla luce del Vangelo”, capaci di “rivedere la giustizia umana sul metro della giustizia di Dio”. In quest’ottica il Papa chiedeva non “provvedimenti di clemenza che restino soltanto formali, così che poi, a Giubileo concluso, tutto torni ad essere come prima”, bensì “iniziative che possano costituire una valida premessa per un autentico rinnovamento sia della mentalità che delle istituzioni”. In concreto, ribadito che “il carcere non deve essere un luogo di diseducazione, di ozio e forse di vizio, ma di redenzione”, proponeva di: - rendere più umana la vita nel carcere attraverso “concrete iniziative che consentano ai detenuti di svolgere, per quanto possibile, attività lavorative capaci di sottrarli all’immiserimento dell’ozio”; - elaborare “itinerari formativi che ne agevolino il reinserimento nel mondo del lavoro, al termine della pena”; - predisporre un “accompagnamento psicologico” idoneo “a risolvere nodi problematici della personalità”; - offrire ai detenuti l’opportunità di “approfondire il loro rapporto con Dio, come pure il loro coinvolgimento in progetti di solidarietà e di carità”. Da ultimo – e sappiamo bene come questa richiesta è stata sistematicamente ignorata da molti Paesi incluso il nostro – il Papa invocava “un segno di clemenza a vantaggio di tutti i detenuti: una riduzione, pur modesta della pena”, nella consapevolezza che essa avrebbe rappresentato “un chiaro segno di sensibilità verso la loro condizione”; li avrebbe orientati “a guardare al futuro con nuova speranza”; avrebbe costituito “un segno eloquente del progressivo affermarsi nel mondo, che si apre al terzo Millennio cristiano, di una giustizia più vera, perché aperta alla forza liberatrice dell’amore” (n.7)
L’immagine del carcere e le prospettive per una sua umanizzazione che vengono delineate dalle parole del Papa costituiscono la cornice in cui muoverci nella nostra riflessione sulla realtà del carcere e sull’opera pastorale della Chiesa. Su quest’ultima voglio in particolare soffermarmi, per offrire alcuni elementi di come essa possa oggi utilmente esplicarsi. 4.1 Anzitutto è opportuno tenere presente che l’assistenza spirituale nelle carceri è coordinata dall’Ispettorato dei cappellani dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile, istituito con legge 5 marzo 1963, n.323, al quale spetta esercitare “la vigilanza sul servizio di assistenza religiosa” negli “istituti di prevenzione e di pena” (art.1). Il Cappellano Ispettore viene nominato dal Ministero della Giustizia (cfr art. 2). Tale servizio assicura l’assistenza religiosa ai detenuti attraverso il ministero dei cappellani, incaricati per tale servizi “con decreto del Ministero della Giustizia, sentito i parere dell’Ispettore dei cappellani e del competente Ispettore distrettuale degli istituti di prevenzione e di pena per gli adulti e previo nulla osta dell’Ordinario diocesano” (art. 4 della legge 4 marzo 1982, n. 68). Per quanto riguarda le esigenze di carattere religioso e spirituale dei detenuti, l’accordo di revisione del Concordato Lateranense, approvato i 18 febbraio 1984, prevede che la loro condizione non può “dar luogo ad alcun impedimento nell’esercizio della libertà religiosa e nell’adempimento delle pratiche di culto dei cattolici” (art. 11, comma 1). 4.2 Trattando dell’esercizio della pastorale carceraria, occorre ribadire che essa è espressione della presenza della Chiesa locale nell’ambiente del carcere. La prima responsabilità dell’evangelizzazione nel carcere è infatti della Chiesa nella sua globalità; il carcere non è un luogo fuori dalla Chiesa. Chi lo abita, se cattolico, è parte integrante della comunità cristiana di quel territorio; se non è cattolico, è parte integrante di quella umanità al cui servizio, nell’annuncio e nella testimonianza, la Chiesa del luogo è inviata da Cristo. Perciò primo responsabile anche di ogni azione pastorale che si fa nel carcere, è il Vescovo. Non esistono due Chiese, una fuori e una dentro il carcere; ma un’unica Chiesa che si fa presente accanto ai suoi figli e a tutti gli uomini nelle diverse condizioni dell’esistenza, compresa la condizione del detenuto. Un primo punto di riflessione può essere pertanto costituito proprio da come aiutare a far crescere questo senso di mutua appartenenza tra Chiesa locale e carcere nella coscienza di tutti i fedeli, nella progettualità pastorale diocesana. C’è poi il ministero del cappellano, la cui missione è parte integrante del progetto pastorale della Chiesa particolare. La presenza del cappellano accanto ai detenuti e al personale del carcere non nasce da na scelta personale, da un autonomo sentimento di vicinanza a situazioni di marginalità, da una vocazione personale allo stare vicino ai poveri, ai deboli. Egli non è un volontario “sui generis”, bensì un inviato, che si inserisce nella presenza della Chiesa nel mondo del carcere, e si pone al servizio di questa presenza. Anche se nel carcere, il cappellano ha possibilità di entrare e operare in forza di una disposizione di legge che riconosce il diritto del detenuto a professare la propria religione, il mandato a star dentro, una volta che la porta del carcere è aperta, non viene al cappellano dallo Stato ma dalla Chiesa; nel rispetto dei regolamenti, il cappellano opera soltanto secondo le indicazioni della Chiesa locale. In sintesi, la pastorale carceraria è parte della missione della Chiesa locale e il cappellano del carcere è mandato dalla Chiesa locale; di conseguenza mentre la pastorale si estende fino a comprendere il carcere, il cappellano si mette in ascolto e cerca di coniugare le indicazioni della pastorale diocesana con le domande e le attese dei detenuti. Questa impostazione del rapporto tra cappellano del carcere e diocesi necessita anch’essa di verifica e di concrete indicazioni operative. 4.3 La missione e il servizio del cappellano nel carcere hanno una evidente espressione nel tessuto di rapporti umani che egli riesce a creare e che nel carcere sono basilari È fondamentale esprimere attenzione alla condizione di vita dei detenuti, alle condizioni di vita delle loro famiglie, ai problemi degli Agenti di Polizia Penitenziaria, di quanti, per il loro lavoro, nel carcere nel tribunale o in altri luoghi, sono legati alla condizione dei carcerati. Sono essenziali, quindi, attenzione, preoccupazione, conoscenza, stabilire rapporti esprimere vicinanza umana, curare un autentico interesse alle persone. Questa, però, è solo la condizione per operare, non è la sostanza dell’operare, non è il fine per cui si opera nel carcere. Pur vicina alle miserie dell’uomo, la Chiesa non è l’infermiera della storia, né dei popoli, né dei singoli. La sua missione è il Vangelo e trasmettere il Vangelo. Lo stesso vale per il Cappellano, anche quando l’annuncio non può essere fatto in modo esplicito - e questo può accadere anche nel 90% dei casi: in certe condizioni di vita può essere difficile fare immediatamente un annuncio esplicito di Cristo! -, anche quando alla celebrazione non trovi quasi nessuno che vi partecipi – può accadere anche questo in un carcere -, anche quando la testimonianza della carità non è colta nel suo valore o nella sua intenzione propriamente teologale, ma viene percepita soltanto come gesto di solidarietà. Anche quando c’è tutto questo, la presenza del Cappellano nel carcere si giustifica solo in funzione del Vangelo. Perdere questa consapevolezza, farebbe scadere la figura del Cappellano a quella di un assistente psicologico, ad un assistente sociale. È ovvio che il ministero di annuncio, celebrazione e testimonianza va svolto tenendo conto delle particolari condizioni del carcere, alla luce, anche, delle situazioni di crescente pluralismo religioso che oggi caratterizzano sempre di più la condizione carceraria. E qui c’è molta creatività da far nascere, perché non si possono prendere le modalità proprie della parrocchia, gli stesi strumenti, le stesse sussidiazioni e trasportarli, così come sono, all’interno della realtà carceraria. Il tutto deve realizzarsi ne rispetto del principio della essenzialità che chiede di ricondurre tutto ai principi sostanziali della fede, del Dio Uno e Trino, del Cristo salvatore morto e risorto per noi, e alle forme essenziali della celebrazione, che è la radice eucaristica di tuta la vita sacramentale del credente. Fondamentale è anche la chiarezza sul contenuto del messaggio evangelico da annunciare e testimoniare, avendo cura di evitare una lettura puramente consolatoria, o una lettura falsamente eversiva dell’ordinata convivenza delle persone, sposando le cause di ribellione in quanto tali; senza che ciò debba significare peraltro giustificare le ingiustizie. Il Vangelo infatti è messaggio di verità, messaggio di autentica liberazione, messaggio di misericordia, invito alla lode, alla contemplazione, alla riscoperta di un mondo d’interiorità cha dà la vera misura delle cose, opera di quella carità che, prima ancora di fare opera di carità, è una carità che stabilisce le condizioni di vera fraternità, di vera compagnia umana; sono queste le caratteristiche del Vangelo che toccano in modo più specifico la condizione carceraria. Anche su questa impostazione autenticamente evangelizzante dell’azione del cappellano nel carcere merita che proponiamo riflessioni e prospettive.
5.1 Nel suo ministero in carcere il cappellano non è solo; altre figure ecclesiali (volontari: religiosi, religiose, laici e laiche) lo accompagnano o sarebbe augurabile lo accompagnassero; anche di esse il cappellano deve essere chiaramente il pastore. Tali co-protagonisti operano a vario titolo nel carcere per lo più impegnati in azioni di solidarietà, ma anche per la catechesi e devono riferirsi al cappellano per una coordinata presenza di Chiesa in quell’ambiente. Infatti, come in una parrocchia l’unità dell’azione non nasce dalla rivendicazione dei ruoli ma dalla comunione spirituale che si stabilisce tra tutti, così anche in carcere il cappellano deve essere colui che lavora perché possa rafforzarsi il coordinamento pastorale nella comunione e nella corresponsabilità. 5.2 Il cappellano non ha solo la responsabilità pastorale del carcere, ma anche il dovere di sensibilizzare la comunità cristiana ai problemi della pastorale carceraria attraverso l’attuazione di taluni impegni. Anzitutto occorre far conoscere la realtà del carcere e sussidiare una visione cristiana di tale realtà; il che non è impresa facile: c’è in giro, da un lato, una marcata tendenza al giustizialismo e dall’altro una certa inclinazione al perdonismo, sia a livello politico che, soprattutto, culturale. Una lettura di fede della realtà carceraria è un dono che il cappellano deve fare alla comunità cristiana, ribadendo che il visitare, nelle sue diverse forme, i carcerati, è indicato da Gesù come uno dei metri del giudizio finale. Un secondo impegno è la sensibilizzazione alla pastorale carceraria nei luoghi formativi: seminari, studentati degli istituti di vita consacrata maschili e femminili, centri di formazione dei laici operatori pastorali. Una terza indicazione riguarda l’individuazione di modi sempre più adeguati al continuo cambiamento per aiutare i carcerati nel loro cammino di riabilitazione, così da attrezzarli perché una volta usciti dal carcere, sappiano reinserirsi nella società come uomini veri, capaci di autentiche relazioni sociali. Un quarto impegno può essere il suscitare vocazioni al servizio del volontariato nel carcere e l’individuare i nuovi problemi che la condizione carceraria pone e le relative risposte ecclesiali. Il fatto che oggi aumentino, nella popolazione carceraria, le presenze di stranieri, e a volte di stranieri di altre religioni, implica che bisognerà pure attivare preti, religiosi e laici provenienti da quei paesi, più vicini alle culture da cui provengono questi carcerati, per accompagnare il cappellano nella sua azione pastorale. Un ultimo impegno concerne la ricerca di un organico collegamento della pastorale carceraria con gli organismi diocesani per affrontare insieme i problemi riguardanti la catechesi, la celebrazione dei sacramenti: (battesimi, cresime, matrimoni) o altre situazioni pastorali che nascono all’interno del carcere. Dobbiamo pertanto chiederci come aiutare i nostri cappellani e svolgere questa loro missione all’esterno del carcere. 5.3 Per finire una parola sulle responsabilità della comunità cristiana nei confronti della pastorale carceraria e sul sostegno che essa è tenuta ad assicurare, anche sotto l’aspetto economico, destinando all’azione dei cappellani parte dei fondi dell’otto per mille finalizzati alle attività di culto e pastorale. Il coinvolgimento della comunità, però, prima che economico, deve riguardare il riconoscimento del ruolo e del servizio peculiare del cappellano, la collaborazione con lui, l’ascolto della sua esperienza nei luoghi di partecipazione come, ad esempio, i consigli presbiterali e i consigli pastorali, in modo che la sua voce consenta di poter comprendere la situazione carceraria là dove si fa discernimento pastorale. La comunità deve ancora far crescere la vocazione al volontariato caritativo, ma anche a quello spirituale, il volontariato, cioè, della preghiera, capace di cambiare e convertire le persone ancor meglio delle attività solidali. La comunità cristiana deve, infine, fare in modo che il cappellano possa avvicinare le famiglie dei detenuti e sia coinvolto nei programmi di reinserimento degli ex carcerati nel mondo sociale e nel mondo del lavoro.
Cari Confratelli, come ho anticipato all’inizio, questo mio intervento ha inteso offrire una traccia per la riflessione comune e per il confronto delle esperienze. Mi auguro che da questo primo accostamento alle realtà carceraria il Consiglio Episcopale Permanente sappia cogliere gli elementi necessari per capire questo modo, per sapere accompagnare quanti gravitare su di esso, per progettare a suo tempo orientamenti e linee pastorali idonee a sussidiare l’annuncio e il servizio del Vangelo, per dare a questo ambiente la speranza in Cristo salvatore dell’uomo.
“La Pastorale del Penitenziario”, a cura dell’Ispettorato Generale dei Cappellani della Carceri Italiane, Anno IX – n. 3, pagg. 155-165
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