|
|
Leggi i Commenti alla newsletter
Sto imparando a non odiare Giornata nazionale di studi, Casa di Reclusione di Padova, Venerdì 23 maggio2008
Era il 27 Maggio 1974 “Era il 27 Maggio del 1974, ero con mia moglie e una coppia di amici in un ristorante per cenare insieme. Discutevamo della nostra partecipazione il giorno dopo ad una manifestazione che si sarebbe tenuta in Piazza della Loggia contro il Terrorismo. Ci sembrava giusto partecipare. Dovevamo far capire che la città era contro ogni tipo di violenza. Eravamo convinti che con la violenza non si risolve niente.”. Così ha cominciato il suo racconto Manlio Milani, presidente dell’associazione famiglie vittime della strage di Piazza della Loggia a Brescia, dove persero la vita 8 persone e ne furono ferite 94. Una bomba nascosta in un cestino porta rifiuti fu fatta esplodere da organizzazioni di estrema destra durante la manifestazione pacifica. Così ha proseguito il Milani: “Il 28 Maggio stavo recandomi in Piazza della Loggia con mia moglie. Abbiamo visto la coppia di amici e ci stavamo recando presso di loro, quando una persona mi fermò per chiedermi qualcosa. Mi fermai, mentre mia moglie proseguiva verso i nostri amici. Fu allora che la bomba scoppiò…” A questo punto Manlio Milani ha raccontato quello che gli è accaduto in quel momento, lo smarrimento, la vista agghiacciante delle vittime stese per terra nel loro sangue, i lamenti dei feriti e i pensieri – egoistici- che gli si sono accavallati nella mente in quel momento: “Speriamo che mia moglie non sia tra le vittime…” Dopo aver realizzato che sua moglie era tra le vittime il pensiero ancora egoistico: “perché proprio lei…” E ancora… quasi un rimorso per essere sopravissuto. “Non sono riuscito a dormire per mesi…avevo sempre la luce accesa anche di notte…poi la forza per ricominciare a lottare con le persone che condividevano con me gli stessi ideali: la violenza non risolve niente. L’odio di classe è una menzogna!”
Sto imparando a non odiare Ci siamo ritrovati in tanti all’appuntamento nel Carcere i Due Palazzi di Padova per la giornata dell’ascolto delle vittime dei reati, venerdì 23 Maggio. Qualcosa di veramente nuovo: il tema della giornata era “Sto imparando a non odiare” Un titolo scelto perché - come ha spiegato Ornella Favero, Volontaria nel carcere di Padova da dieci anni e Direttrice Responsabile di “Ristretti Orizzonti” – sono le parole dette, in una recente intervista, da Antonia Custra, figlia di un poliziotto, ucciso il 14 maggio 1977 a Milano da manifestanti che aprirono il fuoco contro le forze dell’ordine. Queste parole stanno ad indicare, cosi si esprime la Favero, “ un percorso di sofferenza che, però ha un punto di arrivo fondamentale: smettere di odiare. Imparare a non odiare è fondamentale per le vittime di reati violenti, perché nutrirsi di odio per anni significa rinunciare a vivere: fondamentale per le vittime di reati di ‘allarme sociale’ come i furti o gi scippi, perché comunque c’è una forte spinta a trasformare l’allarme sociale in odio, che significa coltivare un clima di angoscia e insicurezza che peggiora enormemente la qualità della vita di tutti; fondamentale per i familiari delle persone detenute, che arrivano a detestare la loro condizione, quel paradosso per cui sono vittime trattate spesso allo stesso modo degli autori di reato. Imparare a non odiare è fondamentale, soprattutto lo è per chi ha commesso un reato”. Paradossalmente gli autori di reato in carcere spesso non pensano minimamente alle vittime dei loro reati, ma si sentono essi stessi a loro volta vittime. Forse per questo all’inizio della giornata di studio alcuni detenuti in rappresentanza dei circa 100 ristretti presenti nell’aula, hanno ripetutamente espresso il loro bisogno di “ascoltare” le vittime dei reati, “perché solo così noi possiamo veramente renderci conto della gravità di quello che abbiamo fatto” Durante tutta la giornata si sono così succedute sul palco le vittime dei reati, e dai loro racconti è risultato chiaro a tutti l’estrema inadeguatezza del nostro linguaggio, del nostro modo di rapportarci ad esse. Certe espressioni come” Durante una rissa c’è scappato il morto…” oppure “sono stato in prigione e ho pagato il mio debito con la giustizia…” sono da eliminare completamente perché dietro ogni vittima c’è una storia… una storia di sogni infranti, di sofferenza, di umiliazione, e anche se sei stato in prigione non potrai mai pagare per la sofferenza inflitta nella vita di una persona, di una famiglia di una comunità.
E’ stata poi la volta di Andrea Casalegno, giornalista del Sole 24 ore. Il padre, giornalista anche lui del giornale La Stampa fu ucciso dalle Br. Carlo Casalegno, il padre, era nato a Torino nel 1916. Partigiano, scrittore, saggista, alla Stampa dal 1947 e vicedirettore del giornale dal ‘68, venne gravemente ferito da un commando delle Brigate rosse che gli sparò quattro colpi di pistola, mentre rientrava nella sua casa di Torino, disarmato e senza scorta. Era il 16 novembre 1977. Morì in ospedale dopo tredici giorni di agonia. Fu il primo giornalista italiano assassinato dai terroristi. Andrea ci ha tenuto ad osservare che il suo caso è differente dagli altri. (anche lui era di sinistra ed era un militante di LC. Inoltre aveva 39 anni, sposato con due figli, quando suo padre fu ucciso.) Paradossalmente lui condivideva con gli assassini di suo padre la stessa ideologia. Il brigatista rosso Raffaele Fiore, quello che sparò, disse di non aver mai nutrito inimicizia nei confronti di Casalegno, ma che lo considerava «un simbolo»: dunque, andava abbattuto. Andrea ha espresso così il suo pensiero al riguardo: “È una scusa, una banale scusa. Quando tu vuoi scaricarti la coscienza, t’inventi di tutto. I nazisti s’inventavano che gli ebrei non erano uomini ma insetti nocivi. Il cervello umano ha la capacità di isolare ed espellere ciò che lo disturba: dato che ammazzare un uomo è sempre un pochino “emozionante”, tu dici: “Ma quello non è un uomo, è un simbolo, che me ne importa?”. Questo depone a favore della disumanità, non è un’attenuante ma una spaventevole aggravante.”. Questa è stata una tra le tante affermazioni di Andrea che ci dovrebbe far riflettere molto…Com’è possibile considerare un essere umano un simbolo e dimenticarci che è una persona?
Il Prof. Adolfo Ceretti, docente di criminologia all’università di Milano-Bicocca, che ha partecipato attivamente nella commissione per la riconciliazione e la pace che si è svolta nel Sud Africa, ha innanzi tutto ringraziato Ornella Favero e tutta la redazione di Ristretti Orizzonti per essere riuscito ad organizzare un incontro che davvero lascerà il segno nel mondo del penale. Nel suo intervento poi ha parlato delle realtà sulle quali deve lavorare la giustizia Riparativa. Ha focalizzato, tra l’altro, la sottile linea rossa che unisce tutte le vittime di reato: “La perdita del prima”. E’ la perdita ontologica del clima di fiducia nei confronti del mondo, degli altri che difficilmente riacquisterà. Inoltre il senso di colpa per essere sopravissuti. “Nei miei incontri con le vittime di reato, ha detto il Prof. Ceretti, più che l’odio, cerco di intercettare il rancore. E’ normale che ci sia…” Ha poi riportato alcune espressioni di una vittima di reato che era stata intervistata dalla BBC: “Il rancore è un odore acre e fastidioso che mi sento dentro…” Ha dato poi una definizione davvero originale del rancore: “Provare rancore è assumere veleno e aspettare che gli altri muoiano”. “Che cosa accade, si è chiesto, nell’uomo, quando odia? Che cosa dicono e pensano, coloro che odiano, quando stanno per fare atti di violenza? Colui che odia sente l’atro come qualcosa di ‘malevolo’, paradossalmente colui che odia, odia perché prima si è sentito odiato a sua volta. L’odio presuppone l’odio. Avviene un processo di demonizzazione dell’altro. Come si fa a non odiare un demonio? All’inizio del processo c’è lo sguardo odiante che non vede mai il volto dell’altro, ma vede nell’altro il volto di un “fantasma universale”. Perché ci sia giustizia occorre essere considerati come persone, finché siamo numeri non c’è giustizia. L’odio non ha un oggetto ed è indifferente alla persona C’è un male universale personificato da combattere ed eliminare. L’ideologia cancella la persona. La Giustizia Riparativa lavora ed elabora proprio questo “riscoprire in ogni individuo una persona”.
Soffiantini Giuseppe, è un industriale del settore tessile del Bresciano, viene sequestrato il 17 Giugno 1997 e rimarrà 237 giorni nelle mani dei sequestratori. Sarà liberato il 9 febbraio 1998. Il signor Soffiantini ha parlato della violenza inaudita connessa ad un sequestro perchè è una violenza che dura nel tempo. Però ha anche riconosciuto di avere la fortuna, rispetto ad altre vittime di reato, di poter raccontare quello che gli è successo. Si è introdotto così: “Ho visto la tristezza di coloro che sono in carcere, perché hanno perduto la libertà, io li capisco perché io stesso per il periodo del sequestro, ho perso la libertà”. Ha anche ricordato un particolare del periodo della sua prigionia: “Avevo subito un’operazione a ‘cuore aperto’avevo bisogno di assumere una pillola tutte le sere altrimenti rischiavo la vita. Mi lamentavo con il mio carceriere che, ad un certo momento, bestemmiando, m’intimò di tacere gridandomi: sapessi cosa ho sofferto io…” a quel punto il signor Soffiantini gli risponde: “Che cosa hai detto? Tu hai potere di vita e di morte su di me, ma non ti paragonare a me. Io ho sempre lavorato e tu sei solo un feroce malvivente. Quando si rischia la vita pensi cose che magari non pensi per tutta la vita: Ma, non avrà un po’ di ragione anche lui? L’indifferenza degli altri, della società di fronte a certe situazioni drammatiche nelle quali versano tanti nostri simili…Se fossimo più solidali tanti crimini forse non avverrebbero. Chi sbaglia, però, deve pagare! Pena immediata e certa. Dopo però ci deve essere un percorso di riabilitazione, bisogna dare n messaggio positivo e devono capire che non devono fare agli altri quello che non vorrebbero fosse fatto a loro. Cosa significa per Soffiantini perdonare? “ Non sono d’accordo nel continuare a odiare perché fa male a coloro stessi che odiano. Prendere le distanze però è una necessità. L’importante è non stare zitti, ma testimoniare.”.
La testimonianza più commovente è venuta da Silvia Giraluzzi, giornalista, che ebbe il papà ucciso come rappresaglia subito dopo la strage di piazza della Loggia, quando lei aveva appena tre anni. Ci dice che non ricorda bene era troppo piccola. Le ritornano alla mente, vaghi ricordi, immagini di ritagli di giornali, mezze frasi…a 9 anni le dissero che il papà era stato ucciso. Lei non credeva, pensava che il papà fosse andato via e nessuno glielo diceva. Sperava di rivederlo: “Sono stata due volte nel carcere. La prima volta prima degli esami di maturità, alla fine del processo contro gli assassini di mio padre. Ricordo che al processo non c’era nessuno: né amici, né colleghi, né fratelli. C’erano solo le famiglie e gli amici dei brigatisti. I responsabili della morte di mio padre furono condannati e mia madre mi disse che era come se avesse visto il mio papà sulla soglia della porta che le diceva: Giustizia è stata fatta. Ricordo che non riuscivo a capire come i parenti di coloro che avevano ucciso mio padre se ne andavano tranquilli con le loro auto, mentre io mi portavo dentro ancora, a distanza di tanto tempo, il dramma della perdita di mio padre. In quel tempo pensavo che era giusto che stessero in carcere, così la società si liberava di persone di quello stampo. La seconda volta, molto tempo dopo, come giornalista, ho dovuto seguire un progetto “Teatro carcere”. Ho avuto l’occasione di conoscere molti detenuti: persone intelligenti che addirittura pensavo avrebbero potuto insegnare qualcosa anche a me. Il teatro fu poi portato fuori le mura della prigione e i detenuti facevano le prove all’esterno. Ricorderò sempre quest’episodio: un giorno durante le prove mi resi conto che uno di loro invece di fare le prove era fuori a giocare con dei bambini. Chiesi agli agenti perché permettessero questo e la risposta mi lasciò senza parole: quei bambini sono i suoi figli ed era la prima volta che li vedeva dopo tanti anni di detenzione. Pensai che anche quei bambini stavano soffrendo come avevo sofferto io: crescere senza il padre! Da allora la mia vita radicalmente cambiata. Non provo odio ma desiderio di essere lasciata in pace. Penso che sia giusto impegnarsi per i diritti dei detenuti, ma bisogna lottare ancora di più per i diritti delle vittime. Va bene che i detenuti che hanno pagato aiutino i disagiati, ma il diritto delle vittime di essere lasciati in pace, secondo me, viene prima del diritto dei detenuti di vivere una vita normale. Non è giusto che persone che si sono macchiate di crimini orrendi, di cui i familiari portano ancora le tracce, stiano continuamente sotto i riflettori, vengano invitati nelle università ad insegnare (?!) o addirittura siano deputati a rappresentare il paese. Tu, - rivolgendosi ad Ornella Favero – hai scritto che coloro che delinquono dopo aver pagato devono entrare in punta di piedi nella società, io credo che debbano entrare a testa bassa.
E’ giunto infine l’atteso intervento di Olga D’Antona, vedova del giuslavorista Massimo D’Antona, ucciso dal commando delle Brigate Rosse formato da Mario Galesi e Nadia Desdemona Lioce il 20 Maggio 1999. “Ho ben presente il primo incontro che ho avuto con i detenuti, la redazione di Ristretti Orizzonti - e con te Ornella nel gennaio del 2007. Eravamo una 40 di persone. In quell’occasione ho raccontato la mia storia e ricordo che emerse in tutti noi sofferenza e dolore reciproco che arricchirono tutti noi che partecipammo. L’On. D’Antona ha poi parlato della sua esperienza e, tra l’altro, ha detto che: “Il tempo non rimargina , ma aiuta a riconquistare quella serenità che è frutto dell’accettazione del dolore: un dolore che è stato elaborato e condiviso. Dobbiamo testimoniare i valori nei quali crediamo è una responsabilità che abbiamo nei confronti di tutta la società, ma soprattutto nei confronti dei giovani.”. In questo contesto della testimonianza, la Signora D’Antona si è così espressa: “Vorrei rivolgermi in modo particolare al prof. Ceretti: Non ho bevuto il veleno dell’odio. Esiste un’irreversibilità dell’accaduto: anche se i brigatisti si fossero pentiti non avrebbero riportato in vita mio marito. E’ necessario però fare uno sforzo per cercare di far emergere l’umanità dell’aggressore. Se essi manifestassero sentimenti di pentimento, io sarei pronta ad incontrarmi con loro.”. Guardando a se stessa oggi la Vedova D’Antona ha detto: “Certamente non sono più la persona di prima, ma ho voluto continuare a portare il cognome di mio marito. Vorrei richiamare però l’attenzione di tutti i presenti sullo ‘stigma’ che a volte viene posto alle donne che subiscono cose del genere: Non è la stessa cosa per l’uomo e per la donna: Se è l’uomo a restare vedovo, l’uomo è vedovo per un po’, ma se è la donna a restare vedova allora la vedova è vedova per sempre!”. Parlando poi dell’incapacità da parte delle persone perbene di gestire la relazione con la sofferenza, si è così espressa: “Inoltre le ferite più fastidiose, sono venute dalle persone, cosiddette, “perbene”. Ho notato una tale goffaggine, disagio…un’incapacità di gestire la sofferenza che ti ferisce per davvero. Quanto sottile è l’aggressività delle persone perbene!” La Signora D’Antona ha concluso il suo intervento parlando del perdono: “Perdono è una parola che non conosco, non sono cattolica. Sento però di aver vinto quando “recupero” l’altro; quando l’aiuto a vincere la sua “parte cattiva” ( Tutti abbiamo una parte cattiva dentro di noi). Credo nel riconoscimento dell’altro, nella ricerca dell’altro, credo nella necessità del ‘parlarsi’ . In ultimo vorrei ringraziare Ornella Favero per il lavoro straordinario fatto organizzando questa giornata.”. Uscendo dal Carcere, pensavo che giornate come queste si dovrebbero moltiplicare in tutta l’Italia. Si dovrebbero creare occasioni in cui vittime di reati e agenti di reati potessero incontrarsi e parlare tra di loro, con l’obiettivo di contrastare questa ondata di odio che sembra avviluppare oggi l’Italia. Don Bruno Oliviero |