Dott.sa Kiran
Bedi: per un nuovo modello di gestione del carcere
Il 4 e 5 luglio 2000 si è svolto nell’università
cattolica di Milano un interessante convegno dal titolo “ E’ sempre
possibile. La realtà carceraria: riflessioni per un suo superamento”, con la
partecipazione, oltre che di autorevoli personalità delle istituzioni
nazionali, di una straordinaria donna indiana, la dott.ssa Kiran Bedi.
Prima donna, in India, ad entrare nel servizio
di polizia, nel 1972; prima donna cui sia stato affidato, nel 1993, l’incarico
di Direttrice generale di un carcere (Tijar, a Nuova Delhi), prevalentemente
maschile, di eccezionali dimensioni (quasi diecimila detenuti), Kiran Bedi ha
dato prova, durante la sua gestione, di come davvero sia “sempre possibile”
trasformare le strutture carcerarie in luoghi di rieducazione finalizzati al
reinserimento sociale, in luoghi, in altri termini, capaci di produrre una
diminuizione consistente e permanente della criminalità: i tassi di recidiva
erano, a Tijar come da noi, elevatissimi (intorno al 70%); ma, dopo le modifiche
apportate all’organizzazzione penitenziaria, in soli due anni sono stati
ridotti a pochi punti percentuali.
Proprio in virtù dei risultati
ottenuti, Kiran Bedi - che ha condensato l'esperienza nel carcere di Tihar e gli
studi successivi in un volume, pubblicato nella versione italiana con l'editore
Giuffré, dal titolo: " La coscienza di sé, le carceri trasformate. Il
crollo della recidiva." dall'originale in lingua inglese dal titolo "It's
always possible. Trasforming one of the largest prisons in the world" - è
stata premiata con una serie impressionante di riconoscimenti internazionali,
tra i quali il "Ramon Magsaysay", noto come il "Nobel
asiatico",consegnatole a Manila nel 1994, e il "Joseph Bueys", in
Svizzera, nel 1997.
Ma ritorniamo al convegno e, in
particolare al contesto in cui questo si è collocato. Come ha, in apertura,
illustrato il prof. Federico Stella, promotore di queste giornate di studio, la
pena detentiva, liberata dalle sue istanze di mera vendetta - ormai
insostenibili sia da un punto di vista giuridico che logico e filosofico, come
hanno dimostrato proprio gli studi dei giuristi dell'Università Cattolica,
avallati oggi dal libro del Cardinale Martini (Sulla Giustizia, Milano, 1999) e
dal recente appello del Papa - e sconfessata empiricamente nella sua presunta
funzione di deterrenza, vive oggi un momento di crisi.
Crisi dovuta essenzialmente al
fatto che , se da un lato, l'unica funzione sostenibile del carcere è quella di
rieducazione, dall'altro, la realtà ha, in modo anche drammatico, evidenziato
non solo il fallimento di ogni strumento rieducativo concretamente praticato, ma
soprattutto la paradossale natura criminogena dell'attuale sistema carcerario.
Ed è qui che si colloca la
portata rivoluzionaria del pensiero e dell'opera di Kiran Bedi
"scoperta" e invitata in Italia ben prima che le luci della ribalta
portassero davanti all'opinione pubblica gli enormi problemi della realtà
carceraria.
Il cuore della proposta di
Kiran Bedi illustrata in modo approfondito nei due giorni di convegno, anche
mediante l'ausilio di documentari filmati, è semplice: contrappone il modello
negativo, che caratterizza la gestione tipica delle strutture carcerarie, in
oriente come in occidente, ad un modello positivo.
I due modelli si distinguono
innanzi tutto sotto il profilo degli effetti della prevenzione.
Il primo è definito come il
modello della "cultura dell'avvoltoio" e condensa le cause e le
ragioni delle altissime percentuali di recidiva e, in definitiva,
dell'insicurezza sociale.
La collettività,
l'amministrazione carceraria, la polizia, il governo, i media sono estranei,
lontani, dai detenuti, e, pur dichiarando di avere a cuore la prevenzione del
crimine, si interessano al carcere solo quando emergono dei problemi
contingenti.
La società, è così
percepita, all'interno del carcere, come avente un ruolo segregante, negativo,
ostile, vagamente predatorio: la cultura, appunto, dell'avvoltoio.
E il detenuto reagisce: rabbia,
aggressività, istinti di vendetta si rafforzano pronti ad essere esternati una
volta fuori dal carcere.
Ciò produce effetti
paradossalmente opposti alla presunta funzione di sicurezza delle prigioni: il
carcere finisce, infatti, con l'avere un effetto un effetto criminogeno, con
l'essere una "scuola di specializzazione del crimine", un luogo dalle
"porte girevoli", da cui si esce per poi inevitabilmente rientrare.
A questa logica
dell'esclusione, dell'isolamento consegue la limitatezza dei programmi di
istruzione e di formazione capaci di confrontarsi, poi, realmente con il mercato
del lavoro.
Questo è il più grande
problema secondo la Bedi.
Il detenuto è in carcere per
avere male utilizzato il proprio tempo, mal'amministrazione penitenziaria lo fa
persistere nell'errore: anzi, essa stessa "uccide il tempo" del
detenuto lasciandolo recluso, senza nulla da fare, per gran parte della
giornata.
Una simile strada deve essere
abbandonata, dice Kiran Bedi, a favore del secondo modello, quello positivo
della "cultura della colomba", sperimentato con successo a Tihar, ma
anche in qualsiasi struttura carceraria che lo abbia adottato - negli Stati
Uniti (Seattle e Sacramento), in Inghilterra, in Nuova Zelanda, in Australia, a
Taiwan.
Questo è descritto come il
"modello delle tre C": il carcere deve essere Correzionale, Collettivo
e basato sulla Comunità. "Correzionale", nel senso che i programmi,
volti ad un effettivo e reale reinserimento, devono essere previsti per tutti i
detenuti; il compito della direzione del carcere è essenzialmente quello di
"time management", di gestire il tempo dei reclusi per evitare che
venga "ucciso", di "investire" in esso per renderlo
produttivo.
Nelle carceri devono
entrare scuole di istruzione e di formazione, ma anche università. "Non è
mai troppo tardi per imparare" ci ha detto Kiran Bedi.
Per ottenere questo, la
struttura deve diventare a gestione "Collettiva". L'amministrazione
penitenziaria deve interagire in modo informale con i detenuti (la Bedi girava
di persona tutti i giorni per la struttura); questi ultimi dovrebbero avere dei
loro organi di autogestione e la possibilità di contattare direttamente,
personalmente, il direttore (a Tihar è stata estremamente utile, per esempio,
l'introduzione di una scatola per lettere di petizioni al direttore, che veniva
fatta girare per le celle, di detenuto in detenuto); i carcerati, come dice Kiran Bedi, devono essere considerati i "clienti dell'amministrazione
penitenziaria).
L'impegno della
"Comunità" è, per questo, insostituibile: il carcere deve aprire le
porte alla società civile, ai media, ai volontari, che devono realmente entrare
in contatto coni detenuti facendoli sentire parte attiva, integrante della
collettività secondo una logica di re-integrazione, non di esclusione.
Ognuno deve contribuire quanto
può: e non ci si può nascondere, allora, dietro l'affermazione della mancanza
di risorse economiche, ma bisogna agire per "investire" nel tempo dei
carcerati, anche con il più modesto apporto (donare libri, computer, offrirsi
disponibili ad insegnare un lavoro,ecc).
Lo scopo del modello proposto
è, chiaramente, un cambiamento interiore, un cambiamento "vero" del
detenuto: questi deve essere condotto all'introspezione, all'autocritica - per
usare le parole del Cardinale Martini -, ad acquisire consapevolezza di sé, dei
propri istinti aggressivi come delle proprie capacità di reinserimento attivo
nella collettività. A tal fine Kiran Bedi ha sperimentato e promosso, con
straordinario successo, in molte carceri del mondo, la meditazione vipassana.
Questa tecnica si è dimostrata
formidabile, nel consentire a chi la pratica di entrare in sé stesso, superare
la propria paura, le proprie angosce, e quindi l'aggressività, l'avidità e
l'ostilità che generano il reato.
E' da notarsi che questi
programmi di meditazione hanno avuto successo perché sono stati attuati non
solo dai detenuti ma anche dal personale di sorveglianza e, prima di tutti,
dalla stessa direttrice (che ora li ha inseriti nei corsi di formazione per i
funzionari di polizia indiani).
E' proprio per illustrare
questa straordinaria esperienza in carcere è stato proiettato, dopo la
relazione della Bedi, un documentario, dal titolo "Doing time, doing
vipassana" girato proprio a Tihar, e, peraltro, poi premiato con il Golden
Spire, a S. Francisco nel 1994. Alla reazione entusiastica dei numerosi
operatori del settore, che hanno sottolineato proprio la concretezza ed il
pragmatismo della dott.ssa Bedi, sono, poi seguiti gli interventi, più
scettici, di Luigi Pagano, direttore del carcere di S. Vittore, e di Giancarlo
Caselli, direttore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Il
primo, pur avendo ammesso di ignorare, nel suo insieme, la proposta di Kiran
Bedi, si è dimostrato perplesso, soprattutto sull'utilizzo di tecniche di
meditazione, mentre ha, sostanzialmente, concordato con l'esigenza di aprire il
carcere al mondo esterno allo scopo di favorire un reiserimento effettivo dei
detenuti. Il dott. Pagano ha poi elogiato il coraggio di Kiran Bedi, la sua
concreta apertura verso modalità trattamentali innovative; dote questa che
manca ai direttori italiani, troppo spesso paralizzati dallo "spauracchio
della sicurezza".
Ma il punto cruciale, per noi
italiani, è se la via intrapresa dal Dipartimento dell'amministrazione
penitenziaria sia quella della "colomba" o, piuttosto, stia
irrimediabilmente precipitando verso la "cultura dell'avvoltoio".
Su questo il dott. Caselli ha
dato, nel suo intervento, ampie rassicurazioni almeno sui principi di fondo,
sulle linee guida di una nuova e diversa politica penitenziaria: il primo passo
è, però, appurare "che cosa vogliamo dal carcere", affermare
chiaramente per usare le parole di Kiran Bedi, qual'è la "missione"
del carcere. Il nostro paese, la nostra classe politica, la stessa società
civile, non hanno certamente una visione univoca; c'è, viceversa, un ampio
schieramento trasversale incline ad assecondare gli irrazionali istinti di
vendetta e le presunte esigenze di sicurezza, e a sostenere il massimo ricorso
alla pena detentiva, con assoluta indifferenza per le sorti del delinquente:
"Peggio per loro".
Chiarita la
"missione" di rieducazione, di risocializzazione, bisogna scontrarsi
con il "problema dei problemi: il sovraffollamento. Questo rende assai
difficoltoso, sempre secondo Caselli, il perseguimento di qualsiasi prassi di
formazione, di istruzione, di spinta al reinserimento.
Ma, proprio su questo specifico
punto, il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria non ha i mezzi per
intervenire. Altri possono e devono, il legislatore, innanzitutto, impegnandosi
sul disagio sociale, sull'immigrazione (il 30% dei detenuti in Italia sono
extracomunitari) sulla tossicodipendenza (un altro30% dei detenuti sono
tossicodipendenti) e battendo la strada di misure alternative accettabili,
dall'opinione pubblica, e praticabili, in un certo numero elevato di casi, e la
magistratura più attenta e prudente nel momento di irrogazione e mantenimento
della pena detentiva.
Ciò che può fare, e sta
facendo, il D.A.P. è impegnarsi nella differenziazione dei circuiti di custodia,
sperimentando forme di custodia attenuate, nella quali vi sia una massiccia
presenza di esterni, educatori, insegnanti, volontari; elaborare un nuovo
regolamento penitenziario, già approvato dal Consiglio dei Ministri il 16
giugno; favorire dei piani per l'edilizia finalizzati, quantomeno, a chiudere le
vecchie strutture carcerarie; promuovere, infine, un nuovo modo di pensare e di
agire quotidianamente.
Dopo gli interventi dell'On.
Alberto Simeone - che ha ricordato come l'art. 27 Cost., "norma di
straordinario spessore giuridico e morale", sia troppo spesso dimenticata
da coloro i quali sono preposti alle riforme del "pianeta giustizia" e
che, in effetti, per risolvere i problemi del carcere non sono necessari
interventi strutturali, ma piuttosto un cambiamento di mentalità - e di Paolo
del Debbio, assessore alla sicurezza del comune di Milano - il quale ha
illustrato le iniziative che il comune di Milano sta adottando, soprattutto a
favore dell'inserimento degli ex detenuti nel mercato del lavoro e della
creazione di forma di custodia attenuata per detenute con bambini fino a tre
anni - il prof. Luciano Eusebi, il quale ha fornito contributi decisivi agli
studi sulla pena, ha opportunamente ribadito il "tema a monte" del
convegno, cioè l'interrogativo su quale concetto di giustizia si vuole
realizzare e s quale sia il ruolo del diritto penale: dalla risposta a tali
questioni emerge, in modo nitido, come il carcere non debba essere legittimato,
ma superato in nome di diverse modalità sanzionatorie che promuovano la
centralità della persona umana.
L'obiezione più ricorrente dei
numerosi giornalisti presenti al convegno è stata fondata sulla diversità
religiosa e culturale tra oriente e occidente, tra l'India e l'Italia,
diversità che renderebbe inapplicabile, da noi, il modello fondato sulla
"cultura della colomba", in particolare nella parte in cui si propone
di agire, anche attraverso strumenti innovativi, quali appunto la meditazione,
sulla mente dei detenuti, sulle negatività da cui "germoglia e cresce il
crimine".
Ebbene, ogni dubbio è stato
fugato dall'appassionato intervento di don Luigi Melesi, da 20 anni cappellano
di S. Vittore, delegato dal Card. Martini al convegno: ha dimostrato, citando il
Vangelo, il recente libro dell'Arcivescovo di Milano, ma, soprattutto, facendo
leva sulla lunga esperienza di vita nelle carceri (prima di arrivare a San
Vittore è stato per 22 anni cappellano del Beccarìa), che davvero c'è una
identità assoluta tra il pensiero e l'opera di Kiran Bedi e la nostra
tradizione religiosa e culturale.
Largo spazio, dunque, secondo
don Luigi Melese alla meditazione, al dialogo effettivo con gli psicologi, ma
anche l'ingresso in carcere dei cittadini, e, come più volte ripetuto anche da
Kira Bedi, di attività che impegnino in modo fruttuoso la mente dei detenuti
(scuole, Università).
Infine una proposta
provocatoria, ma anche percorribile: affidiamo i detenuti, piuttosto che ai
"freddi" servizi sociali, a cittadini volontari che possano offrire
loro una casa, un lavoro, un ritorno alla vita sociale.
Dott. Francesco Centonze
Assegnista di diritto
penale presso l'università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.