Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia
Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia |
La Conferenza è nata allo scopo di rappresentare enti, associazioni, e gruppi impegnati quotidianamente in esperienze di volontariato nell’ambito della giustizia in generale e più compiutamente all’interno e all’esterno degli istituti penitenziari per affrontare ogni tematica che abbia a che vedere con la realtà della reclusione e dell’esclusione sociale. La Conferenza si propone di :
- rappresentare un tavolo di confronto per le esperienze e le proposte provenienti dal volontariato che opera in questo settore per offrire un approfondimento delle tematiche e un potenziamento dell’impegno comune;
- definire l’identità e il ruolo della presenza del volontariato nel suo impegno operativo e nei confronti delle istituzioni affinché sia riconosciuto come soggetto e non come ammortizzatore sociale, e in modo che il suo contributo progettuale sia considerato nella definizione delle politiche della giustizia;
- dialogare con le istituzioni, pubbliche e private, con l’obiettivo comune di offrire a soggetti, incorsi in reati, percorsi di reinserimento nella società;
- collaborare con tutte le realtà presenti sul territorio, pubbliche e private, per potenziare la rete dei servizi allo scopo di intervenire preventivamente in situazioni d’esclusione sociale, per supportare le persone in difficoltà nel mondo del lavoro;
- superare l’attuale frammentazione delle attività di solidarietà promosse in questo settore del volontariato per delineare, nel rispetto dell’autonomia e originalità delle varie realtà associative, una comune strategia d’intervento.
Alla fine del 1994 nasce il progetto di costituire un tavolo di confronto per tutto il volontariato che opera nel vasto campo della giustizia. Promotori dell’idea il Coordinamento Enti ed Associazioni di Volontariato Penitenziario – Seac, Arci-Ora d’aria, Caritas Italiana e Fondazione Italiana per il Volontariato.
Nel novembre 1996 si ritrovano a Roma oltre 400 persone in rappresentanza di circa 200 associazioni per la costituente della Conferenza nazionale. L’iniziativa è presentata all’interno della Casa circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso a Roma alla presenza del Ministro di Grazia e Giustizia e dei Direttori generali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dell’Ufficio Centrale giustizia minorile. L’incontro è seguito con grande interesse dagli operatori del settore, dal mondo del volontariato e della stampa nazionale.
In occasione dell’iniziativa è presentato il volume “Volontariato e Giustizia”, edito dalla Fivol e curato dai promotori della Conferenza, per offrire una riflessione sulla portata culturale del volontariato nel settore della giustizia
Il primo giugno 1998, a Roma, avviene la costituzione della “Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia”. L’8 giugno 1999, la Conferenza firma un protocollo d’intesa con il Ministero della Giustizia, un fatto storico per tutto il volontariato impegnato nella giustizia.
Il 28 giugno 1999 la Conferenza Nazionale promuove un incontro pubblico a Roma alla presenza del Presidente della Camera dal titolo: “Mediazione: il contributo del volontariato”.
Dal 2 al 4 luglio 1999 la Conferenza aderisce all’organizzazione di un seminario di studi a S. Felice del Benaco (BS) sul tema “Il volontariato tra le vittime e autori del reato”.
Il 18 luglio 2000 il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha emanato la circolare n.3528/5978 volta a dare piena attuazione al protocollo d’intesa siglato l’anno precedente tra la Conferenza e il Ministero della Giustizia.
Nel mese di settembre 2000 è uscito un volume sulla mediazione penale curato dalla Conferenza dal titolo “Giustizia senza vendetta”, edito dalla Fivol.
Il 25 ottobre 2000 alla presenza del Ministro Affari Sociali, del Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e Capo Dipartimento Giustizia Minorile, è stato presentato il volume “Non solo carcere”, edito dalla Fivol, che raccoglie il materiale dell’indagine nazionale sulle organizzazioni di volontariato operanti nell’ambito della giustizia, ricerca finanziata dall’Osservatorio Nazionale del Volontariato.
Dal 10 al 12 novembre 2000 a Terni, si tiene la “Seconda assemblea nazionale del volontariato giustizia” che, in un programma fitto d’interventi e confronti, lancia la proposta di un “forum europeo volontariato giustizia”.
La Conferenza ha i seguenti scopi:
a) Il confronto e il dialogo tra gli organismi nazionali di volontariato, per promuovere politiche di giustizia, sia sul territorio nazionale sia internazionale, e coinvolgere il maggior numero di organismi locali per un confronto ed un dialogo a livello regionale e territoriale.
b) Rappresentare gli organismi aderenti, operanti nei diversi settori dell’intervento sociale e volontario nell’ambito della giustizia, nei rapporti con lo Stato, il Governo, le istituzioni pubbliche e private a livello nazionale.
Sono aderenti alla Conferenza gli organismi nazionali che hanno sottoscritto l’atto costitutivo e lo statuto, altri organismi nazionali e le conferenze regionali dotate di atto costitutivo e statuto che ne fanno richiesta e la cui domanda di ammissione è accolta dal Consiglio direttivo.
Sono condizioni essenziali per essere ammesso a far parte della Conferenza nazionale:
- che l’organismo richiedente sia strutturato a livello nazionale, con una presenza minima in cinque regioni;
- che le Conferenze regionali siano dotate di atto costitutivo e statuto.
Sono organi della Conferenza:
1) Il Consiglio direttivo.
2) Il Presidente.
3) Il collegio dei revisori dei conti.
Le conferenze regionali sono composte dai rappresentanti degli organismi locali presenti in regione che lo richiedono e la cui domanda di ammissione sia accolta dal Consiglio regionale stesso.
Gli Organi regionali sono:
1) Consiglio regionale
2) Responsabile regionale
Organismi nazionali:
- Antigone per i diritti e le garanzie nel sistema penale.
- Arci-Ora d’aria
- Caritas Italiana
- Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario – Seac –
- Fondazione Italiana per il Volontariato
- Libera associazioni, nomi e numeri contro le mafie
- S. Vincenzo di Paoli
- Emilia Romagna
- Lazio
- Liguria
- Lombardia
- Sardegna
- Sicilia
- Toscana
- Umbria
- Veneto
Nel settembre del 2000 si è svolto a Terni il Convegno della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia e in quell’occasione è stata presentata l’indagine nazionale sulle organizzazioni di volontariato nell’ambito della giustizia a cura di Renato Frisanco raccolta nel volume “Non solo carcere” edito dalla Fondazione Italiana per il Volontariato (Fivol) La ricerca è stata commissionata dall’Ufficio per la solidarietà sociale nella persona del Ministro On. Livia Turco.
Mi auguro che tutti coloro che lavorano nel volontariato nell’ambito della giustizia possano leggere questo libro che ritengo segni una tappa storica nel cammino dello stesso Volontariato Giustizia Riporto qui di seguito le Considerazioni Conclusive di Renato Frisanco che danno un’idea dell’importanza del lavoro svolto.
Considerazioni Conclusive
“ Le osservazioni conclusive che seguono tengono conto anche del contributo di Paola Atzei e di Celso Coppola a seguito di una comune riflessione al termine del lavoro di ricerca.
La ricerca sulle organizzazioni di volontariato impegnate nel settore della Giustizia ha conseguito i suoi scopi principali; anzitutto, quello di identificare l’universo delle forze solidaristiche che attuano interventi specifici nei confronti della popolazione soggetta a provvedimenti penali. L’universo noto supera le trecento unità se consideriamo anche le organizzazioni che favoriscono l’attuazione delle misure alternative inserendo nella loro attività soggetti che ne beneficiano.
Il secondo scopo raggiunto è stato quello di descrivere e connotare questo fenomeno, attraverso un disegno di indagine a due livelli: uno, più descrittivo e analitico, attraverso una rilevazione nazionale con un questionario strutturato e compilato da 191 organizzazioni; l’altro, più qualitativo e valutativo, attraverso la metodica degli studi di caso con cui sono state esaminate dieci esperienze significative per un percorso condotto ed emblematiche per le “buone pratiche” nel settore della Giustizia. In aggiunta, ma preliminarmente alla ricerca fenomenologia, sono state anche rilevate le acquisizioni sul tema emerse dall’analisi del contenuto della stampa sociale e specialistica.
Le risultanze più significative di queste analisi sono già state riferite nei rispettivi capitoli. Qui si intende invece fare qualche considerazione che partendo dai risultati della ricerca li connetta ai temi relativi allo scenario più ampio del mondo della giustizia e della società complessiva.
L’indagine si colloca in un momento particolare del dibattito sulla questione carceraria e sul tema della sicurezza dei cittadini. Da una parte cresce la responsabilità della società civile nei confronti della popolazione carceraria e del suo destino, come l’indagine ben documentata, facendo presumere che la stagione delle riforme innestate sul vecchio sistema penitenziario possa continuare. Dall’altra aumentano nella società paure e insicurezza rispetto ai fenomeni della criminalità, grande e piccola, peraltro enfatizzate in modo strumentale e allarmistico da forze politiche e mass media, con scarso dibattito su cause, effetti e fattori di contrasto dei fenomeni, con reiterato ricorso a tesi interpretative sbrigative e riduzionistiche.Ciò frena, rinvia, ridimensiona la modernizzazione di un apparato spesso pesante, burocratizzato e sempre alle prese con l’emergenza carcere. Le stesse misure alternative, che pur vengono applicate in numero crescente negli ultimi anni, non sono ancora in grado di scalfire nella misura auspicabile la pena detentiva e quindi di mettere in discussione il carcere che vede aumentare la propria popolazione. Perché questo avvenga occorre riconvertire la spesa, riducendo quella destinata agli Istituti penitenziari in modo programmato con l’aumento di quella impegnata nell’attuazione delle misure in libertà. Che, occorre ribadire, sono pur sempre misure restrittive della libertà. Così come appare necessario ridurre la discrezionalità complessiva nel sistema che spetta a tutti i decisori delle politiche penitenziarie e che fa delle nostre carceri realtà molto diverse, ma non in quanto rappresentano circuiti differianziati e luoghi dove si realizzano progetti mirati di trattamento. Pure il Volontariato risente di questa discrezionalità, non essendo riconosciuto e valorizzato dovunque e allo stesso modo, anche all’interno di uno stesso istituto penitenziario. Esso opera bene laddove trova istituti penitenziari e Centri di servizio sociale sensibili e interessati all’innovazione e al contributo complementare nel rispetto dei reciproci ruoli. Ma trova semaforo verde solo nelle aree sperimentali o nei settori a custodia attenuata o nei piccoli istituti penitenziari. Anche i percorsi di alternatività tendono a premiare i meno deboli tra i deboli, e quindi a creare un meccanismo di ulteriore disuguaglianza nei confronti dei soggetti (dato che il sistema penale è già di per sé un sistema selettivo). Vi è altresì il rischio che il volontariato cada in una logica discrezionale di farsi carico delle persone con maggiori vantaggi, opportunità di uscita dal carcere e di inserimento lavorativo smentendo un po’ la sua funzione di dare voce, sostegno e opportunità prioritariamente a chi ne è privo.
La ricerca dimostra tuttavia che una parte significativa di società civile è presente nel campo della giustizia, non più con singoli volontari dispersi nelle strutture, ma con le attrezzate organizzazioni di militanti e fornisce un contributo significativo al processo riformatore iniziato 25 anni fa e ancora in cerca di una convincente attuazione. Gli stessi istituti di riforma non sarebbero passati dalla potenzialità all’atto, né risulterebbero efficaci, se dal corpo sociale non fossero emerse le disponibilità necessarie per dare loro una realizzazione concreta. Si tratta di un fenomeno cospicuo per quantità – dalle oltre 300 organizzazioni di volontariato in campo (una parte allo scopo di ospitare detenuti in semilibertà o in affidamento), alle risorse che mobilita : umane (8500 unità) ed economiche (svariate decine di miliardi), alle persone penalmente sanzionate che sostiene, accompagna e inserisce nel contesto sociale da cui provengono (oltre 13 mila), ma anche per qualità dell’intervento: per l’innovazione che apporta e per i valori che afferma.
E’ un volontariato che ha come parole d’ordine “progetto” – termine passato anche nel nuovo Regolamento penitenziario – “responsabilizzazione” degli utenti, inserimento sociale e lavorativo, sensibilizzazione dell’opinione pubblica. E’ un soggetto che dimostra di sape lavorare in carcere ma anche “fuori”, di intervenire sul singolo soggetto ma anche sul contesto in cui è inserito – la famiglia, le istituzioni penitenziarie e la comunità dei cittadini – di rispondere al bisogno immediato ma senza perdere di vista la globalità dei problemi, di intervenire con specifiche prestazioni ma anche sui percorsi e i processi, di operare come singola associazione ma al tempo stesso di saper fare rete con altre, di mettere in campo l’impegno dei propri attivisti ma senza rinunciare a promuovere risorse di valore aggiunto (professionisti, formatori, consulenti che operano gratuitamente o con spirito di volontariato).
Siamo di fronte ad un fenomeno eterogeneo al suo interno, dove sussiste il piccolo gruppo tradizionale “dalle mani nude” accanto al volontariato che attua progetti finalizzati in carcere e alle organizzazioni che impostano azioni complessive ai bisogni guardando alle risorse esterne e al destino sociale dei reclusi. E’ un fenomeno attraversato dalla generale consapevolezza che non basta più lavorare in carcere, anche se non lo si può nemmeno abbandonare, che occorre spostarsi sul territorio ma partendo dal carcere. Il volontariato sta portando il proprio contributo all’analisi critica della “centralità del carcere” che non è più un oggetto intangibile e di per sé efficace e per tutti giusto. Ma anche per il volontariato è difficile fare a meno del carcere perché è nato lì, ha trovato lì la sua prima legittimazione così come, nella nicchia del carcere ha verificato la propria marginalità e la difficoltà a dialogare su questo tema con il resto della società civile sentendosi esso stesso ai margini del sistema. Da qui forse la pionieristica nascita di un coordinamento ormai quasi trentennale delle organizzazioni carcerarie (SEAC) che sentivano, tra l’altro, il bisogno di trovare mutuo sostegno e conforto e, più recentemente, l’esperienza di grande significato e potenzialità quale è la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia.
Con il carcere, luogo e simbolo della pena, occorre comunque fare i conti e da esso è necessario partire per valutare problemi, progettare percorsi diversi, differenziare risposte, avanzare proposte e avviare soluzioni. Anche in termini di decarcerizzazione quando la reclusione appare inutile, dannosa, o controproducente (ad esempio, nel caso conclamato di chi deve rientrare in carcere mentre è ormai positivamente inserito in altra realtà del territorio), principio che è sufficientemente affermato nell’ambito del settore minorile dove si comincia a parlare di “residualità” del carcere.
Le esperienze esaminate nell’indagine qualitativa (gli “studi di caso”) dimostrano palesemente che le misure alternative funzionano e potrebbero essere maggiormente applicate. Il volontariato porta oggi un contributo fondamentale nel settore proprio interpretando in positivo la domanda di sicurezza delle comunità di appartenenza, vale a dire dimostrando che le migliori garanzie alla società si danno non escludendo la persona sanzionata ma aiutandola a diventare un “cittadino”. Forse è arrivato il momento di valutare l’impatto che le nuove modalità di scontare la pena producono in termini di efficacia della misura, di risultati per le persone sanzionate e di effetti securizzanti sul contesto sociale, oltre al vantaggio dei minori costi per l’amministrazione della giustizia. Si tratta di valutare poi gli esiti sociali della pena o il tasso di recidivanza prodotto dai differenti modelli culturali di gestione del carcere, confrontando quello tradizionale dell’esclusione senza trattamento con quello più moderno dove si sperimentano e si attuano soluzioni di transizione dal carcere alla società e, nel contempo, si praticano soluzioni alternative al carcere. La capacità di garantire la sicurezza dei cittadini si può misurare sia in termini di risultati di politiche repressive (numero di persone recluse, di autori di reato identificati, di maggiori forze di polizia disseminate sul territorio) che in termini di efficacia delle politiche di reinserimento (numero di ex detenuti positivamente recuperati, di carriere criminali evitate…). Una tale rilevazione permetterebbe di valutare anche il contributo, che sappiamo cospicuo e in molti casi essenziale, fornito dalle forze della società civile che si fanno carico di favorire la territorializzazione e l’umanizzazione della pena. Si tratta di un contributo, per altro, non ancora sufficiente rispetto alle esigenze e alle potenzialità. Ma anche rispetto alla mission del volontariato perché è questo il modo più efficace per realizzare una sua essenziale funzione , quella di fare cultura della solidarietà capace, in questo caso, di intaccare l’opinione generale sul carcere e sulla pena. Occorre uno sforzo ancora maggiore da parte delle organizzazioni di volontariato e di terzo settore nell’azione territoriale, a cominciare da una più ampia disponibilità a fare sinergia con il Centro di servizio sociale, nato per essere canale istituzionale di collegamento tra il carcere e la società e sempre più impegnato sul territorio per lo sviluppo delle misure alternative. La sinergia con tale Centro costituisce attualmente il punto debole dell’intervento del volontariato nell’ambito dell’esecuzione penale; si registra per lo più una reciproca mancanza di attenzione, mentre le esperienze di collaborazione proficua sono ancora rare.
Le organizzazioni di volontariato sono diffusamente consapevoli della necessità di una loro proiezione sul territorio e per questo auspicano maggiori risorse economiche e umane e si appellano agli enti locali per disporre di spazi di ospitalità; in non pochi casi stanno attrezzandosi sul piano della struttura organizzativa e delle competenze. Talvolta dilacerandosi al loro interno per l’emergere ora dell’anima associativa, quella dei valori e della testimonianza ovvero dell’”essere” della organizzazione, ora dell’anima efficientista, quest’ultima protesa al “fare” e talvolta più orientata al modello dell’impresa sociale che alla gratuità pura. Le stesse organizzazioni molto stanno facendo anche sul piano dell’inserimento lavorativo delle persone soggette a provvedimenti penali, che è la vera centralità rispetto al dettato costituzionale (art.27) della finalità di riabilitazione sociale della pena. Duplice appare al riguardo la direzione di impegno del volontariato: la promozione di cooperative di produzione e lavoro, soprattutto per il primo avvio al lavoro, e la mobilitazione del tessuto produttivo nelle loro comunità di insediamento, ottenendo anche risultati importanti presso artigiani e imprenditori, come nei casi studiati di Livorno, di Biella e di Genova (per i minori “messi alla prova”). E un inserimento lavorativo spesso affiancato da programmi formativi, da un servizio di orientamento e di sostegno al lavoro ormai sperimentato in diverse realtà e assunto come obiettivo anche dai progetti realizzati con fondi europei (come “Andrea” nella realtà di Rebibbia, “Arcipelagus” a Livorno, entrambi della componente solidaristica dell’ARCI) che hanno permesso di fare uscire dal carcere i primi gruppi di persone. Si tratta di progetti che, in mancanza di una loro generalizzazione diffusa, dove vengono realizzati suscitano legittime aspettative da parte dei detenuti con il rischio di attribuire alle stesse organizzazioni di volontariato un’importanza superiore a quella reale e frustrando altresì le attese non corrisposte.
Il volontariato è altresì l’unica realtà che si fa carico delle famiglie dei reclusi (ed ex) con interventi progettuali, di sostegno, cura dei figli, ripristino di rapporti intrafamiliari, e che persegue il coinvolgimento degli stessi familiari nella vita associativa dove praticano l’auto-aiuto e possono diventare risorsa solidaristica importante.
Il volontariato è da sempre una risorsairrinunciabile per una serie di attività in carcere: da quelle di tipo assistenziale (la povertà segue i detenuti in carcere) e di sostegno morale-psicologico (la solitudine è un’afflizione aggiunta) – dove spiccano gli operatori dei gruppi ispirati dalla Caritas – all’intervento culturale (pressoché dovunque la possibilità di lettura in carcere dipende dal lavoro dei volontari per allestire e dotare le biblioteche interne). E ricreativo-sportivo (l’UISP al riguardo si avvale dal ’93 di un’apposita convenzione con il ministero di Grazia e Giustizia). Nella crescita e differenziazione delle attività, servizi, progetti del volontariato vi è anche una certa attenzione a fare prevenzione sui soggetti a rischio, sui minori che sono alla deriva nei quartieri più problematici delle aree urbane, nella consapevolezza esplicitata da un’organizzazione foggiana, che aiutare il giovane significhi “non trovarlo domani detenuto”. Infine, le esperienze più mature non rinunciano ad un’azione di sensibilizzazione della comunità al problema a partire dalle scuole, con un rapporto costante con i mass media locali, con conferenze e seminari, allo scopo di lavorare sui pregiudizi, sul senso di insicurezza e di paura della popolazione. E tale lavoro si sta estendendo, sia pure in modo non ancora sistematico, ai servizi di riconciliazione tra vittima e autore di reati, di prevenzione dei conflitti sociali tra individui e gruppi dello stesso quartiere e con il coinvolgimento della cittadinanza in iniziative di solidarietà su persone e su casi concreti.
Si notano anche due modi di “saper essere” da parte del volontariato nelle strutture penitenziarie:
- quello marginale di un volontariato che ricava la propria identità dagli spazi concessi dal carcere, che si adegua alla struttura, sollevandola di una serie di piccoli problemi dei detenuti e dove quello che conta è la testimonianza, il messaggio morale del singolo volontario;
- quella di una presenza di un volontariato associato che ha una propria identità originale che nasce prima e fuori del penitenziario (ha un progetto di società, finalità esplicite di impegno socioculturale…), identità che vuole portare dentro il “sistema” e nel portarla dentro tende a cambiare le cose, le persone, l’ambiente, sia pure con gradualità, continuità e programmazione.
Ed è linfa vitale per il carcere, nella misura in cui rompe tabù come, ad esempio, l’impossibilità di superare la routine con una progettualità specifica, e per la testimonianza contaminante rispetto ai valori della dignità della persona, della relazionalità; ma anche per la convinzione che ci possa essere per ogni persona detenuta un percorso di riabilitazione sociale a partire da un progetto di vita responsabilmente assunto.
Per molti detenuti poi, entrare in contatto con il volontario costituisce la migliore garanzia di un recupero di diritti mai acquisiti, perché la popolazione che vi affluisce è sicuramente tra le più svantaggiate socialmente, culturalmente ed economicamente, come il grande numero di tossicodipendenti e di immigrarti extracomunitari attesta ormai oltre la metà dei detenuti, mentre il tasso dei reclusi “senza lavoro” (disoccupati o inoccupati) è tre volte più elevato di quello nazionale, e 4 su 10 non hanno raggiunto il livello di scolarizzazione dell’obbligo.
L’indagine fa emergere come il volontariato che opera in carcere sia dovunque accettato e apprezzato perché considerato una risorsa importante. Tuttavia è forte la tendenza alla delega dei casi difficili, allo scarico di incombenze non soddisfatte dai pochi operatori tecnici e alla concessione di spazi “in cambio” della realizzazione di attività che il carcere da solo non è in grado di mettere in piedi (corsi formativi o prelavorativi, servizio biblioteca, organizzazione di attività ricreativo-sportive…) e che talvolta nascono e muoiono con le risorse del volontariato. E’ il caso di molte esperienze di formazione al lavoro realizzate con successo in carcere, magari con l’aiuto di qualche obiettore e di qualche maestro d’arte esterno e che poi sono state abbandonate per mancanza di fondi, di organizzazione interna, di piena condivisione della struttura penitenziaria che non vi ha investito dopo la sperimentazione praticata dal volontariato. Pur incontrando il favore e la domanda delle persone detenute, queste sperimentazioni non trovano spesso continuità attraverso una loro istituzionalizzazione, con il rischio di perdere anche le eventuali opportunità che si creano all'esterno e che potrebbero dare ulteriore stimolo alle iniziative stesse.
Se il volontariato è presente e attivo nelle strutture della giustizia non è però ancora per lo più considerato o trattato alla pari degli operatori pubblici. Se di fatto, come si rileva dal contributo di Coppola, la “pari dignità” è dichiarata da un insieme di norme, non è diventata ancora prassi, non si è tradotta in concertazione di programmi e progetti, in operatività concreta, in comune impegno nella formazione.
Non sembra ancora esservi da parte di tutte le istituzioni penitenziarie la volontà di inserire il lavoro del volontariato dentro un “progetto carcere” o un “progetto giustizia” – laddove è la volontà o la cultura a realizzarlo – e quindi a considerare tale lavoro in termini strategici in vista di un miglioramento complessivo dell’offerta nel penale. Talvolta anche per i limiti del volontariato, quando si pone come soggetto salvifico, non sufficientemente coordinato, battitore libero, come quando propone e progetta dall’esterno del carcere senza prima sensibilizzare le direzioni, coinvolgere gli operatori, discutere con loro finalità, procedure e risultati attesi. I limiti delle istituzioni penitenziarie sono invece quelle tradizionali, non ancora del tutto superati, quali: l’autoreferenzialità, la chiusura autarchica, talvolta la paura del nuovo e dell’innovazione che chi entra può portare all’interno delle strutture o delle équipes, con la percezione di un aggravio di compiti da parte degli operatori tecnici (troppo pochi gli psicologi, gli educatori) e, soprattutto di quelli di sorveglianza (quasi in rapporto di 1 a 1 con i detenuti, un primato, in un’analisi comparata delle varie situazioni europee). I tecnici sono i principali interlocutori dei volontari, il cui contributo crescerebbe presumibilmente di quantità e qualità se fossero in maggior numero. Gli agenti di polizia penitenziaria sono invece spesso, e non a caso, destinatari di interventi da parte delle organizzazioni di volontariato come se costituissero una seconda utenza.
Il carcere è altresì un luogo dove vigono precisi regolamenti e doveri da rispettare, per i detenuti anzitutto e per i volontari, ma spesso è una strada a “senso unico”. Non sempre ciò vale per chi ha compiti di custodia, come i recenti fatti di Sassari e le timide ammissioni dei volontari intervistati in varie realtà d’Italia confermano. Il clima di omertà non risparmia nemmeno il volontario soggetto anch’esso a pesanti condizionamenti in un luogo di scarso esercizio dei diritti e dove la legalità latita, pur essendo questo il primo ambito di risocializzazione dei detenuti. Così pare comprensibile la proposta di chi vorrebbe introdurre un garante dei detenuti nella figura del “difensore civico” per assicurare il rigoroso rispetto dei diritti di chi è detenuto (che non si affievoliscono se non nei limiti previsti dalla legge).
Infine, il volontariato dimostra di essere sulla buona strada nel fare propri due strumenti elettivi di crescita e partecipazione: il coordinamento tra le diverse organizzazioni e la formazione. Il primo permette di giocare un ruolo realmente politico, ovvero di stimolo alla trasformazione dell’esistente come forza di denuncia, di elaborazione e di proposta a tutti i livelli territoriali (coordinamenti comunali e regionali di carcere e territorio, consulte cittadine penitenziarie) e di partecipazione istituzionale (come la commissione regionale tecnico-consultiva per i problemi della devianza e della criminalità).
La formazione, sempre più ricercata e praticata, oltre ad essere un necessario fattore di mantenimento delle realtà solidaristiche (garantisce la continuità nel turn over dei volontari), è altresì elemento propulsivo delle stesse per la crescente esigenze di professionalizzazione e capacità di gestire progetti sempre più coinvolgenti, difficili e costosi (anche relazionalmente); una formazione che il volontariato dovrebbe fare sempre più anche congiuntamente agli operatori pubblici, che alcune esperienze già realizzate rivelano fattore vincente nell’abilitare i due soggetti ad un’azione integrata.
In definitiva cominciano ad essere numerose e significative le collaborazioni positive tra gruppi e associazioni di volontariato ed istituzioni penitenziarie, e tali da giustificare ampiamente questa prima ricognizione di ricerca per rilevare metodi, criteri di azione sinergica e percorsi. Tuttavia tali collaborazioni non sono ancora condotte in modo permanente ed organizzato. Vale a dire che non vi è ancora, in generale, una disponibilità da parte dei soggetti pubblici e del volontariato a lavorare per progetti in stretta integrazione tra loro. Ed è questa la sfida che aspetta fin da oggi gli attori interessati e che la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia si pone come primo obiettivo.